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Il 33° Festival di Martina Franca nella Valle d’Itria, luglio 2007, ha prodotto la prima rappresentazione in tempi moderni di Achille in Sciro, dramma per musica di Pietro Metastasio, con le musiche composte da Domenico Sarro in occasione dell’inaugurazione del Teatro di San Carlo a Napoli il 4 novembre 1737, onomastico di Carlo di Borbone, da 4 anni insediatosi a Napoli dopo avere sconfitto l’esercito di Carlo VI d’Asburgo ed esautorato il vice-regno austriaco.
Metastasio aveva composto a Vienna il dramma per festeggiare, il 13 febbraio del 1736, «le felicissime nozze delle altezze reali di Maria Teresa, arciduchessa d’Austria, poi imperatrice regina, e di Stefano Francesco duca di Lorena, granduca di Toscana e poi imperatore de’ Romani», e i suoi versi vennero rivestiti dalla musica di Antonio Caldara.
Date le premesse storico-politiche, dal forte profilo simbolico-culturale, considerando anche il recupero e la esecuzione in questa prima rappresentazione in tempi moderni della partitura del compositore tranese Domenico Sarro, al quale si debbono le musiche che accompagnarono il trionfo di Didone abbandonata di Metastasio nel 1724 al San Bartolomeo di Napoli (teatro deputato, prima della costruzione del San Carlo, ad accogliere l’opera seria e gli eventi musicali della Corte regnante), ci si sarebbe aspettata un’edizione dello spettacolo che tenesse nel debito conto le nobili e prestigiose origini di questo dramma per musica.
Alla sorta di colpo di teatro nel resuscitare le musiche di Domenico Sarro – (compositore fortunato in vita per avere in qualche modo “profittato” di illustri colleghi a lui vicini quali Leo Vinci e Pergolesi, Durante e Leonardo Leo, quanto segretato nei secoli successivi come da una damnatio memoriae tutta ancora da capire) – non ha purtroppo corrisposto lo sforzo unitario tra tutte le componenti artistiche al fine di individuare un’omogenea cifra interpretativa, rivolta soprattutto a evitare di scivolare nella lettura popolar-modernizzante dei testi: il libretto di Pietro Metastasio e l’intonazione di Domenico Sarro. Regista, scenografo e costumista hanno fatto di tutto perché si ignorassero completamente le ragioni, i rinvii di significati e di senso, che originarono storicamente sia il dramma del Poeta Cesareo, sia la sua rappresentazione napoletana per l’inaugurazione del Teatro di San Carlo.
Al regista Davide Livermore è stata data piena libertà nell’interpretare il testo metastasiano in chiave sado-bellicista, utilizzando molto liberamente la figura storico-mitologica di Achille come emblema di quello spirito guerresco – inutilmente celato dall’eroe greco sotto le mentite spoglie di Pirra nella corte del re Licomede –, quale vero motore di ogni cambiamento epocale. La presenza in scena di Nearco – custode in armi del segreto di Achille serve al regista per anticipare la scoperta da parte di Ulisse del vero personaggio celato sotto le sembianze di Pirra. Anche Ulisse, che i re della Grecia spediscono in missione per restituire al suo destino l’eroe invincibile e la vittoria a se stessi, è accompagnato dal fedele Arcade, pronto a stanare con un fucile e a colpi di pistola – sempre esibendo minacciosamente gli arnesi – chiunque occulti e ostacoli la ricerca di Achille nascosto tra le ancelle e le figlie di Licomede. Ma i due Greci non dovranno brigare molto per suscitare la naturale passione per le armi nel figlio di Teti e Peleo, costringendolo a rivelare la sua vera identità.
Dal canto suo l’eroe, presto affascinato dalla tentazione di tornare alla guerra accanto all’antico ed astuto commilitone, deciderà di abbandonare Deidamia, la figlia del re Licomede, la donna a cui ha promesso, ricambiato, amore eterno, promettendole di negarsi per sempre alle armi. La stessa figura militaresca di Teagene, pretendente alla mano di Deidamia, secondo la volontà di Licomede, pure nei panni di un sospirante e rifiutato amante, non può che soggiacere al fascino della guerra, rappresentato dalla bellica virilità di Pirra-Achille, nonostante i vani sforzi che questi fa di dissimularla, perché spinto, comunque, a reagire alle pretese del rivale su Deidamia.
L’interpretazione del dramma risulta pertanto tutta giocata sull’aggressività latente e originaria di Achille, quale potere fondante al tempo stesso la sessualità e la politica: l’Amore-passione come assoggettamento totale di un essere sotto il dominio dell’altro. La soluzione o scioglimento del dramma vede infatti il re Licomede mediare tra le opposte esigenze di amore e guerra, vita e morte, offrendo a Deidamia ed Achille l’opportunità di unirsi in matrimonio, prima del compiersi “naturale” del destino dell’eroe con il ritorno sui campi di battaglia e perciò con la sua fine, quale annientamento di ogni possibilità di estendere il potere di assoggettamento su altri.
Che cosa abbia a che fare tale lettura con il dramma di Metastasio e con la musica di Domenico Sarro è veramente difficile dire ed argomentare, se non fosse – a quanto pare – che quanto più i testi e gli ante-testi appartengono a periodi “antichi”, ovvero anteriori a quelli romantico-risorgimental-nazionalistici o veristico-decadenti, tanto più essi sembrano offrirsi disponibili e liberi a letture interpretative straordinarie, extra-ordines.
Riguardo al testo composto da Metastasio per il matrimonio di Maria Teresa, futura imperatrice – (particolarmente cara al poeta di cui era stata in molte occasioni festive a corte sua fedele allieva ed interprete nei suoi spettacoli canori) – la solenne circostanza del grande evento politico rappresentato da queste nozze è sinteticamente resa esplicita ed efficacemente riassunta nel dialogo a tre, dopo il Coro finale del dramma, tra Gloria, Amore ed il Tempo, i personaggi di questa sorta di Licenza, in cui Amore – e non poteva essere altrimenti – guida e interagisce insieme alle altre due divinità laiche, per modo che Metastasio possa augurare ai due giovani sovrani che il loro potere non venga mai diviso e subordinato ad altro se non alla capacità donativa che ha favorito la loro stessa unione.
Amore |
«A’ numi ancora
Questa lucida aurora
Messaggiera è di pace. Oggi dell’Istro
Su la sponda real l’anime auguste
Di Teresa e Francesco
Stringe nodo immortale.
Opra è d’Amore
La fiamma lor; […]. L’anime grandi
Si ammiraro a vicenda, e sé ciascuna
Nell’altra ravvisò. Le rese amanti
Tal somiglianza. Indi in entrambe Amore
Fu cagione ed effetto;» |
Amore, rivolgendosi alla Gloria, può quindi dichiararsi come alleato di questa:
«Ah! mentre il fuoco mio,
Se alimento ha da te, tanto prevale,
Tuo seguace son io, non tuo rivale.» |
Questi versi – (insieme a tanti altri, purtroppo) – mancano nella ricomposizione del libretto impiegato dal Sarro nella rappresentazione del 1737, ricomposizione realizzata da Ivano Caiazza attraverso la revisione critica della partitura musicale, dalla quale peraltro ha preso le mosse anche il recupero dello stesso libretto, andato irrimediabilmente perso, a quanto finora è dato sapere, e ricavato quindi, trascrivendo i versi riportati dal copista del tempo sotto le note del Sarro. Peraltro, dalla testimonianza di donna Isabella, principessa di Caposele, presente alla rappresentazione del 1737 al San Carlo, già proposta da Salvatore Di Giacomo nel 1906, ripresa da Dinko Fabris nel suo, Un compositore pugliese per il Teatro del Re Borbone ad apertura del libretto di sala per questa prima nei tempi moderni di Achille in Sciro, apprendiamo che «Al grido finale del coro, nel Prologo in dove apparivano la Magnificenza, la Gloria e la Celerità, tutti levatisi in piedi hanno gridato: ‘Viva Carlo’».
Al libretto andato smarrito, si è aggiunto allora lo “smarrimento” dei versi ottenuti dalla copia della partitura del Sarro, e che avrebbero dovuto recare – stando alla testimonianza della nobildonna napoletana – proprio quelli contenenti il senso conferito al dramma da Metastasio? Inoltre appare poco rassicurante apprendere da Ivano Caiazza nel libretto di sala, nell’esibire sia la revisione critica della partitura sia la ricostruzione del libretto, come entrambe siano state realizzate partendo esclusivamente da «una copia manoscritta stilata presumibilmente (corsivo nostro) all’epoca della rappresentazione sancarliana […] appartenuta al collegio di musica San Sebastiano e oggi conservata presso la Biblioteca del Conservatorio di musica San Pietro a Majella di Napoli.» Continuiamo, infatti, ad ignorare chi e per quali motivi apportò rilevanti modifiche al libretto di Metastasio, la presumibile data di stesura della copia manoscritta – (elemento ricavabile dal rasto, dalla tipologia della carta impiegata, dalla comparazione con altri manoscritti musicali del periodo e dalle altre documentazioni d’archivio) – particolari questi nient’affatto secondari in considerazione della vicinanza tra la prima rappresentazione viennese di Achille in Sciro (13 febbraio 1736) e la seconda in senso assoluto avvenuta proprio per l’inaugurazione del Teatro di San Carlo a Napoli il 4 novembre 1737, nonché, a maggior ragione, della grande reputazione ed ammirazione riservata a Metastasio incamminatosi alla carriera di poeta per il teatro musicale proprio nella città partenopea, e del quale ripetutamente erano stati messi in scena i drammi negli anni precedenti il 1737, continuando la sua città d’adozione un analogo trattamento della sua opera seria per tutto il Settecento.
In definitiva, le domande prive di risposta ai quesiti storico-culturali e politici, artistici e impresariali per questa prima rappresentazione in tempi moderni del dramma sono davvero molte, a meno che non si venga indotti a ritenere che essi siano stati sbrigativamente risolti – come purtroppo è costume diffuso per le messe in scena dell’opera del Settecento in Italia – costruendo un testo quasi ex-novo in molti punti del dramma per musica, per questa interpretazione registico teatrale.
Se così abbiamo inteso correttamente le operazioni editoriali realizzate per questa prima rappresentazione in tempi moderni, sarebbe stato opportuno affiancare al libretto impiegato dal Sarro anche il libretto originario di Metastasio allo scopo di conoscere contestualmente, cioè subito, le modifiche, le aggiunte e i tagli allora ed oggi apportati in tutto il corpo del dramma. Spiace che ciò non sia avvenuto, proprio in relazione all’impegno filologico perseguito dal Festival di Martina Franca in tante occasioni e particolarmente opportuno per questa opera rara, composta e rappresentata per l’apertura del Teatro di San Carlo a Napoli e per i festeggiamenti al nuovo re Carlo di Borbone.
Occorre ancora osservare che direzione ed orchestrazione, affidate ad uno specialista come Federico Maria Sardelli, pure con la tendenziale esecuzione filologica con strumenti d’epoca, si sia orientata facendo soprattutto risaltare continue e pressoché quasi mai variate dinamiche di forte e piano, come se si volesse adeguatamente sostenere ed accompagnare la lettura interpretativa fornita dalla regia, dallo scenografo, dai costumisti e dal “light designer”, al progressivo emergere, nel corso dei 3 atti, della sessualità sado-bellicista di Achille come espressione e forma del potere sulla donna e sulla politica.
Certamente, in tale caso, la collaborazione tra le diverse componenti artistiche della rappresentazione, sarebbe stata in buona parte realizzata, assoggettando però i testi e l’ante-testo alla ubris della regia teatrale, quasi a fare coincidere l’interpretazione modernizzante del dramma settecentesco, con la pratica egemonica sviluppata nei riguardi degli altri protagonisti della rappresentazione, direttore, orchestra, cantanti, coro, nonché, ça va sans dire, poeta e musicista, autori ab origine dei testi.
Non sembra a chi scrive che questa possa essere la chiave per fare apprezzare e condurre al successo presso il pubblico del teatro lirico-sinfonico dei nostri tempi l’opera italiana del XVIII secolo e soprattutto, idest, di Pietro Metastasio.
Infine, è auspicabile che l’impegno produttivo del Festival di Martina Franca, giunto al suo 33° anniversario, sia confortato in futuro da opportuni espedienti tecnico-ambientali e teatrali al fine di limitare la dispersione acustica sia degli strumenti musicali sia delle voci dei cantanti, in alto verso il cielo stellato nello spazio aperto, ovvero cortile del Palazzo ducale; ed anche che una parte del pubblico, peraltro accorso numeroso alla prima rappresentazione in tempi moderni di questo melodramma del Settecento, prenda l’abitudine prima possibile di non interrompere la partecipazione emotiva allo spettacolo teatrale e la comprensione di parole e musica, con continui e inspiegabili applausi ad ogni cambio di scena, mentre l’azione drammatica è in svolgimento e quindi il racconto teatrale-musicale non è arrivato ad alcuna conclusione. Forse tale manifestazione di consenso sarà stata suggerita dalla particolare condizione di allestimento del loggione, innalzato per l’occasione su metallici e scomodi tubi Innocenti “a vista”, ma, allora, perché non risolvere felicemente anche questo disagio per la generale soddisfazione di tutto il pubblico? |
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