MARIO
VALENTE
L'Arcadia e Metastasio
Tagliacozzo, Festival di mezza estate, Teatro Talia, 5 Agosto 2007
Alessandro Scarlatti da giovane |
MARIO VALENTE, L'Arcadia e Metastasio
Molti italiani diplomatisi al liceo classico ricordano Pietro Metastasio come il poeta della galanteria e del lirismo amoroso nella letteratura del Settecento. I più ignorano che l’imprinting di tale memoria fu promosso e favorito dal giudizio espresso da Benedetto Croce nei confronti della famosa canzonetta La libertà-A Nice, ritenuta dal filosofo neo-idealista come una delle più felici espressioni dell’intuizione lirico-estetica della poesia italiana del XVIII secolo, secondo gli stili e le forme di quell’Accademia dell’Arcadia nella quale lo stesso Metastasio venne introdotto, fin dalla prima giovinezza, dal suo maestro e mentore GianVincenzo Gravina. La canzonetta rappresentò per il filosofo la forma autentica e sincera dello struggente disincanto degli amori giovanili e, al tempo stesso, il ricordo incancellabile dell’innamoramento. Detto in altro modo, questa poesia di Pietro Metastasio era per il Croce l’espressione tipica e formalmente compiuta del passaggio dalla giovinezza alla fase adulta della vita, e corrispondeva quasi mirabilmente al quadro dello sviluppo positivo dello spirito disegnato e teorizzato dal filosofo. In realtà, l’allievo del Gravina era riuscito magistralmente a contemperare la sua passione per i versi di Ludovico Ariosto con la predilezione per l’opera poetica di Torquato Tasso, fondendo la visionarietà espressiva del primo con la vena lirico-sentimentale del secondo, riversando tali suggestioni nella canzonetta La libertà-A Nice secondo clausole espressive e stilistiche assimilabili a quelle dell’ Arcadia. Peraltro sorprende nel giudizio del Croce, che lega strettamente la canzonetta al periodo giovanile e arcadico di Metastasio negli anni Dieci del Settecento, trascurare o non prendere affatto in considerazione che la canzonetta composta a Vienna nel 1733 trovava Metastasio assai lontano dalla sua esperienza in Arcadia. Il Poeta Cesareo degli Asburgo, infatti, nei primi anni Trenta aveva già conseguito grande fama ed onori come autore di melodrammi di successo come il Demetrio, Adriano in Siria, Issipile, L’Olimpiade e Demofoonte. La giovanile partecipazione in Arcadia era ormai assai distante non solo geograficamente e temporalmente ma nella stessa durata della coscienza artistica del poeta, se è vero come è vero che a quella Nice del 1733 seguiranno negli anni seguenti, fino al 1750, ben altre quattro versioni sullo stesso tema e “personaggio”. Proprio ciò denotava nella libera produzione poetica di Metastasio, ovvero estranea alla committenza dell’imperatore Asburgo, più l’esercizio su un topos poetico-stilistico che un’adesione di stampo lirico-sentimentale, idest nostalgica agli amori giovanili e all’innamoramento. L’unica spiegazione riguardo al giudizio del Croce su un Metastasio perennemente arcadico potrebbe derivare dal postumo riconoscimento che l’Italia post-risorgimentale, con il De Sanctis prima e con il filosofo neo-idealista poi, intese concedere al Poeta Cesareo degli Asburgo nel contesto della moderna tradizione letteraria italiana, assimilandone l’opera poetica all’elegante semplicità espressiva e alla koyné linguistica della letteratura in versi dell’Italia del XVIII secolo, merito pressoché esclusivo appunto dell’Accademia dell’Arcadia. Veniva così trascurato anche l’apporto drammaturgicamente assai rilevante fornito da Metastasio nella produzione di azioni sacre, idest oratori, come La passione di Gesù Cristo, La morte d’Abel e Giuseppe riconosciuto, tutti già composti ed eseguiti prima della canzonetta La libertà-A Nice del 1733. L’originaria partecipazione di Pietro Metastasio alla vita dell’Accademia dell’Arcadia è compresa nel periodo 1708-1718, nei dieci anni della sua formazione e discepolanza alla scuola di GianVincenzo Gravina, la cui morte improvvisa, appunto nel gennaio del 1718, spinge il giovane poeta a chiedere di essere ascritto a quell’Accademia che il suo protettore aveva contribuito a fondare e da cui poi era uscito nel 1711 per dare vita all’Accademia dei Quirini, il nuovo sodalizio letterario che il Gravina voleva indipendente sia dall’influenza dei gesuiti, dal partito filo-borbonico sia dalla sempre incombente e incessante protezione della curia papale di Clemente XI. Non è semplice né facile capire come Pietro Metastasio, dopo avere seguito il suo maestro per oltre un lustro nell’avventurosa impresa dell’Accademia dei Quirini, esplicitamente schierata con il partito filo-imperiale, guidato a Roma dall’ambasciatore degli Asburgo Wenzel von Gallas e dal principe Livio Odescalchi, abbia deciso di aderire all’Accademia dell’Arcadia, nell’anno della morte del maestro, assumendo, secondo il costume accademico, il nome arcadico di Artino Corasio. Certo è che la commemorazione del Gravina in Arcadia nell’aprile del 1718, affidata al suo discepolo prediletto con la declamazione del componimento in terza rima La strada della gloria, non impedì né fu di scrupolo alcuno agli ambienti curiali dominanti per escludere Pietro Metastasio dai benefici ecclesiastici che avrebbero consentito al giovane poeta di sviluppare nella sua città la propria carriera letteraria. D’altro canto, la rima dantesca adottata da Metastasio per l’orazione funebre in onore del Gravina era certamente il più significativo omaggio postumo alla riscoperta dell’importanza di Dante Alighieri nella nostra letteratura, riscoperta intrapresa e sempre perseguita proprio dal maestro. Certamente, l’esaltazione etico-politica del filo-imperiale esule fiorentino non dovette risuonare gradita alle orecchie degli arcadi filo-borbonici, così come del resto non era stata bene accetta la creazione dell’Accademia dei Quirini da parte del Gravina con la conseguente adesione al partito filo imperiale dei circoli nobiliari e diplomatici della Roma settecentesca. Eppure, nonostante Artino Corasio, alias Pietro Metastasio, alla fine dell’estate 1719, dopo l’orazione funebre de La strada della gloria, si vedesse costretto a trasferirsi a Napoli, allora capitale del vice-regno austriaco, per cercare lì migliore accoglienza alla sua poesia e nuova fortuna, a seguito dello straordinario successo conseguito dal suo primo melodramma Didone abbandonata (1724) nella città partenopea, proprio grazie a quest’opera per musica, ben presto fu richiamato a Roma per dirigere il teatro ex Alibert, ora Teatro delle Dame, e qui rappresentarvi nuovi drammi appositamente composti per i suoi concittadini. Se a Napoli Metastasio aveva firmato con il nome assegnatogli dal Gravina ogni sua composizione, dai componimenti festivi per la nobiltà napoletana filo-austriaca alle feste teatrali sino a Didone abbandonata, durante la tournée a Venezia per farvi rappresentare lo stesso primo capolavoro napoletano, più il Siface, e il Siroe, prima del ritorno definitivo a Roma alla fine del 1727, queste opere recarono tutte la firma arcadica di Artino Corasio. Era questo il segno inequivocabile non tanto di un tradimento da parte di Metastasio della «sacra memoria» del suo maestro quanto piuttosto del profondo mutamento avviato dal papato nei rapporti con l’impero asburgico negli anni Venti del Settecento, culminati sotto il pontificato di Benedetto XIII quasi con un capovolgimento dell’antica e preferenziale politica filo-borbonica della Chiesa, ora rivolta invece verso il cattolicissimo Sacro Romano Impero Germanico. L’adesione all’Arcadia non rappresentava più per Metastasio né insidiosi compromessi con la propria coscienza e neppure inquietanti connotati nello schieramento politico tra partiti avversi nell’ambiente curiale romano, ma soltanto ed esclusivamente riconoscere al sodalizio intellettuale e letterario la benemerita funzione di unificazione del linguaggio espressivo ed artistico, insieme, del resto, alla completa accettazione del teatro musicale del discepolo preferito del Gravina. Introdotta dalla composizione dell’oratorio Per la festività del SS. Natale, Gennaio 1728, eseguito con la musica del Costanzi nel teatro juvarriano del palazzo della Cancelleria, sede del cardinale Pietro Ottoboni, committente al figlioccio dell’azione sacra, la nuova fase romana della carriera di Artino Corasio-Pietro Metastasio proseguiva al Teatro delle Dame con le rappresentazioni dei drammi Catone in Utica (1728), Ezio (1728), Semiramide (1729), Alessandro nell’Indie (1729), Artaserse (1730), quasi tutti accompagnati dalle musiche di Leo Vinci (tranne che per l’Ezio messo in musica da Pietro Auletta), insieme alla cantante Marianna Benti Bulgarelli, inseparabili collaboratori dell’impresa teatrale-musicale. Nel novembre 1729, Pietro Metastasio, su invito del cardinale Melchior de Polignac, ambasciatore di Francia a Roma, componeva la festa teatrale La contesa de’ numi, per celebrare la nascita del delfino di Luigi XV. Nessuna di queste opere, sia i drammi sia l’oratorio sia infine la festa teatrale poteva dirsi e connotarsi come espressione rappresentativa di una scuola teatrale-musicale facente capo all’Accademia dell’Arcadia, in quanto quest’ultima da sempre rivendicava a se stessa una specificità eminentemente se non esclusivamente poetico-letteraria, mentre, d’altro canto, Pietro Metastasio-Artino Corasio mostrava a tutto il pubblico romano la capacità sua propria nel profondo rinnovare la struttura, stilistica e linguistica dell’opera per musica di derivazione e matrice barocco-seicentesca. L’insegnamento graviniano rivolto ad una semplificazione dei viluppi narrativo-drammatici, del loro stretto ottemperare alle leggi della verosimiglianza per rispetto alla popolarità e leggibilità sulla scena dei valori e dei sentimenti universali trovavano finalmente in Pietro Metastasio-Artino Corasio l’interprete di una stagione artistica che avrebbe ben presto condotto il loro autore dalla dominante Roma del papato e della Chiesa cattolica all’Impero nella Vienna del moderno Cesare germanico, per tutto il restante XVIII secolo.
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