Editoria e
Multimedia - Catalogo generale pag.1
BETULIA LIBERATA
Azione sacra di Pietro
Metastasio - Musica di
Pasquale Anfossi
Edizione critica a cura di Giovanni Pelliccia
Prefazione di Friederich Lippmann - Introduzione di Mario Valente
Formato: |
21 x 29,8 |
Pagine: |
233 |
Illustrazioni: |
si (colore) |
Lingua: |
Italiano |
Anno: |
2008 |
Prezzo: |
€ 90,00 |
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Disponibile: |
si |
Dall'INTRODUZIONE storico-critica a Betulia Liberata
oratorio di Pietro Metastasio e Pasquale Anfossi
(Roma, 1781)
Betulia liberata all’Oratorio di Santa Maria in Vallicella
La fortuna delle azioni sacre di Pietro Metastasio eseguite dalla Congregazione di San Filippo Neri e in particolare presso la casa madre di S. Maria in Vallicella nel corso del Settecento rende esplicito il vincolo esercitato dalla poesia sulla musica, sia come caratteristica propria della tradizione oratoriale dei padri Filippini sia come peculiarità etico-estetica del loro antico discepolo, certamente influenzato dal magistero religioso e teologico degli oratoriani, ma anche e soprattutto convinto interprete della preminenza della parola poetica e del canto sull’arte tonale.
La sincera ispirazione religiosa e spirituale del cristianesimo di Metastasio conferisce alla poesia per gli oratori accenti di particolare autenticità drammaturgica, resi ancora più coinvolgenti attraverso il rigoroso e continuo rinvio esegetico-narrativo ai testi biblici.
Inoltre, il poeta adotta su se stesso la convalida drammaturgica dell’immedesimazione per accertarsi che l’edificazione etico-estetica configurata nell’azione sacra per musica coinvolga gli affetti dello stesso autore prima di suscitare nel pubblico la comunicazione di senso e di significati propri della fede cattolica.
La ricerca della verosimiglianza sensibile e figurale perseguita nella finzione scenica del melodramma, nell’oratorio fa leva direttamente sulle pulsioni di salvezza e redenzione cristiane dei credenti, sollecitando questi a vagliare la propria individuale prassi morale alla luce della narrazione e rappresentazione delle esemplari figure e vicende della propria confessione religiosa. La specificità etico-religiosa ed estetica dell’oratorio – è noto attraverso le confidenze epistolari di Metastasio a Marianna Benti Bulgarelli – impone al poeta una disciplina compositiva particolarmente laboriosa e sofferta.
Nella composizione degli oratori emerge in tutta evidenza la lezione teologico-filosofica di Sant’Agostino appresa da Metastasio sia attraverso il magistero del Gravina e del suo filo-giansenismo, sia come radicale riflessione sul mistero della fede e sulla responsabilità del credente per opporre al male le opere fattive di carità e di bene, ispirazioni dovute all’insegnamento e alla pratica pastorale trasmessa al poeta nella Congregazione di San Filippo Neri.
Entrambe le ascendenze teoriche operanti in Metastasio sono trasferite dal poeta nelle azioni sacre, insieme ai legami e intrecci con la dialettica politica che negli anni Dieci e Venti del Settecento hanno visto il coinvolgimento dello stesso poeta, giovane e inesperto testimone della brusca accelerazione subita dalla storia a seguito del riassetto generale degli equilibri politici europei e dell’Italia al termine della guerra di Successione spagnola.
Il fatto che le azioni sacre di Metastasio siano destinate a registrare via via ogni pur minima oscillazione del dibattito nel corso dei decenni successivi, testimonia la forte valenza simbolico-sociale attribuita al carattere rappresentativo-ideologico del dramma sacro.
La posta in gioco che la rappresentazione dei misteri della fede e dell’ortodossia religiosa espone nell’oratorio riguarda il primato teologico della Chiesa, vale a dire la stessa guida morale e le prerogative del papato sia nei rapporti con gli stati e le potenze europee, sia all’interno di queste società sottoposte a incessanti e imprevedibili cambiamenti. Proprio nei confronti dei conflitti tra le classi borghesi, l’aristocrazia e il clero nell’Europa continentale, la Chiesa può attribuirsi l’esercizio di un’indispensabile opera di mediazione e di coesione morale tra interessi oramai contrapposti, soprattutto in funzione dell’organizzazione del consenso sociale nei regni governati dall’ancien régime.
La componente filosofica agostiniana negli oratori metastasiani rappresenta quindi insieme l’appello alla rigorosa osservanza dell’unitarietà tra le virtù della fede e l’agire conseguente della politica, nella dimensione universalistica che ancora essa può svolgere da Vienna, cioè dal centro politico della più forte e rappresentativa potenza del mondo cattolico, e l’unico forse stretto ed impervio itinerario che la Chiesa può percorrere per suscitare una possibile unità riformatrice nelle coscienze delle classi dirigenti cattoliche in Europa.
Non sembra dubbio che tra gli oratori viennesi la matrice agostiniana, anche rafforzata e aggiornata da suggestioni malebranchiane, emerga sempre più distintamente in Betulia liberata (1734). Nella vicenda dell’eroina biblica Giuditta, artefice della morte di Oloferne, Metastasio mette in scena – (non già per primo, dopo molti altri quasi ossessivi recuperi cinque-sei-settecenteschi sia letterari sia pittorico-iconografici, né per ultimo perché in pieno Ottocento Friedrich Hebbel scriveva Judith, 1840, tragedia in 5 atti) – la liberazione per mano di Giuditta, vedova di Manasse, della mitica città israelitica di Betulia da asservimento e distruzione recati dal terribile generale assiro Oloferne.
Ma il centro drammatico dell’oratorio di Metastasio non è nell’episodio culminante della decollazione di Oloferne, narrata post festum da Giuditta nella Parte Seconda dell’azione sacra, bensì nel dialogo tra Ozìa ed Achior, all’inizio di questa Parte e subito dopo l’aria con cui Giuditta offre se stessa come liberatrice del suo popolo, e si avvia al campo di Oloferne per realizzare il volere divino con l’uccisione del tiranno. Il dialogo tra Ozìa, sacerdote della religione monoteista di Israele e Achior, il principe pagano del popolo degli Ammoniti, consente alla poesia di Metastasio la dimostrazione che la fede nell’origine della natura e dell’uomo come opera divina conduce razionalmente ad abbracciare la fede nell’esistenza di un unico Dio, e ad accettare fino in fondo di essere suoi strumenti per realizzarne i disegni. Idest: soltanto la ragione illuminata dalla fede e, dialetticamente e di converso, soltanto la fede sorretta dalla ragione possono avvicinarsi all’unità di tutte le cose per adeguare la volontà umana alla provvidenza divina.
Nell’interpretazione malebranchiana del pensiero di Sant’Agostino, Metastasio fa sì che il ritorno di Giuditta dal campo assiro con la testa di Oloferne sia compimento ed akmé della specifica drammaticità dell’oratorio quale estenuante ricerca da parte della ragione dei modi di manifestarsi della volontà divina. Giuditta è la testimonianza attiva e operosa della ricerca della verità al di là di ogni umano sperare, in particolare degli abitanti di Betulia, di cui ha rovesciato la passiva attesa di interventi salvifici del Dio di Abramo e Mosè a favore del popolo eletto, sia perché agli israeliti e soprattutto al pagano Achior ella reca la rivelazione che soltanto la fede nella verità, cioè nell’esistenza di un unico Dio, le ha concesso come premio, donando se stessa, la salvezza del suo popolo ed infine la propria.
L’importanza assunta da Betulia liberata nel dialogo a distanza fra Pietro Metastasio a Vienna e i padri della Congregazione dell’Oratorio romano, si manifesta esplicitamente nel 1743 con l’incarico a Niccolò Jommelli di una nuova intonazione dell’azione sacra. Se la Congregazione di San Filippo Neri già nel 1737, a Genova, fa mettere in musica a Benedetto Leoni l’oratorio di Metastasio nella stesura viennese del 1734, è soltanto sei anni dopo a Roma che essa affida ad uno tra i suoi più dotti membri, poeta anch’egli, il compito di apportare importanti e decisivi rimaneggiamenti al testo di Metastasio affinchè Niccolò Jommelli ne componga poi le musiche, conferendo a questo testo la forma comunicativa definitiva, destinata ad essere eseguita con tutte le diverse e successive intonazioni nelle chiese degli oratoriani nel corso dell’intero secolo.
Introdotta nel libretto pubblicato a Roma presso la stamperia di Giovanni Zempel l’anno 1743 la giustificazione delle modifiche recate al testo originario di Metastasio:
«Si avverte, che questo Sacro Componimento si è ridotto nella forma presente, non ad altro oggetto, che per adattarlo alle circostanze in cui deve cantarsi», i RR. PP. della Congregazione dell’oratorio di Roma imporranno d’ora in avanti l’esecuzione dell’azione sacra del Poeta Cesareo nella versione da loro stessi modificata. Fino all’ultima replica, nel 1794, dell’intonazione di Pasquale Anfossi, dopo la prima esecuzione nel 1781 della sua nuova partitura, la medesima avvertenza stampata per la composizione di Jommelli nel 1743 comparirà in ogni libretto di Betulia liberata stampato per conto della Congregazione, identificando in modo inequivocabile e formale la valenza simbolica attribuita all’oratorio.
L’importanza dell’azione sacra per i Filippini è caratterizzata dalla revisione del testo preparata dal veronese Giuseppe Bianchini, biblista, tra i più eminenti studiosi di storia ecclesiastica del secolo, sacerdote della Congregazione, nipote e continuatore dell’opera di Francesco Bianchini, a sua volta insigne esponente della schiera di studiosi delle scienze naturali, delle lettere e dell’antiquaria, della Bibbia, entrambi legati, zio e nipote, ad altre figure di intellettuali ecclesiastici del secolo come il Muratori, il Maffei, il cardinale Passionei, e agli associati del circolo filo-giansenista dell’Archetto (nato sotto la protezione del cardinale Neri Corsini, nipote di Clemente XII), quali il Foggini e soprattutto il Bottari. Può apparire a prima vista singolare che il Bianchini, considerato da Ludovico Antonio Muratori l’artefice degli studi più autorevoli di storia ecclesiastica del suo tempo, del ritrovamento, anch’esso di eccezionale portata scientifica, degli antichi codici greci, latini, siriaci, ebrei della Bibbia, per contrastare con le armi più sofisticate della filologia gli attacchi del protestante Humphrey Hody alla Vulgata della Bibbia dei Settanta, proprio il Bianchini, segretario dell’Accademia di storia ecclesiastica per nomina nel 1747 di papa Benedetto XIV, sia stato l’autore di sostanziali modifiche al testo poetico della Betulia liberata di Metastasio per l’intonazione del 1743 di Niccolò Jommelli.
Peraltro, proprio e soltanto una figura di grande rilievo scientifico e culturale, come era appunto quella del Bianchini nella Roma del tempo e nella Congregazione avrebbe potuto assumersi la responsabilità di modificare il testo dell’azione sacra, garantendo soprattutto con i nuovi versi l’ortodossia ermeneutica del testo biblico, insieme alla manifestazione dell’originaria spiritualità oratoriana.
Il libretto, da allora in poi, non ebbe più a subire modifiche. Tale dato di fatto, inoltre, fa decisamente giustizia dell'equivoco e/o pregiudizio – di matrice musicale-culturale ottocentesca – che le modifiche apportate ai versi di Metastasio siano attribuibili esclusivamente a Niccolò Jommelli nella veste di compositore.
Se così fosse stato, certamente i musicisti che in seguito intonarono Betulia, sempre su richiesta e invito dei Filippini, sarebbero stati autorizzati, dopo la concessione a Jommelli, ad apportare altri cambiamenti al testo poetico per adattarlo alle necessità tecnico-stilistiche delle intonazioni di ognuno di loro. In realtà, come si è detto ed è dimostrato dai libretti dell’oratorio pervenutici, non uno solo tra essi ha ricevuto la benché minima alterazione. Infatti, tutti i libretti delle numerose intonazioni che seguirono per le esecuzioni della Congregazione alla Chiesa Nuova e altrove, riproducono gli stessi versi se non addirittura la stessa punteggiatura.
Parrebbe addirittura che i Filippini avessero previsto di servirsi della stessa tiratura a stampa del libretto originario, da loro fatto modificare, limitandosi soltanto a cambiare il nome dei nuovi musicisti sui libretti per le successive composizioni ed esecuzioni. L’intera vita di Giuseppe Bianchini dedicata ad indefesse ed estenuanti ricerche storiche, filologiche ed antiquarie per la storia della Chiesa e di Roma, vede l’illustre membro della Congregazione espletare nel 1741 la significativa e rilevante collazione dell’Opera Omnia del Cardinale Giuseppe Maria Tomasi, uno tra i più importanti studiosi di storia ecclesiastica tra Sei e Settecento. Il Bianchini raccoglie nell’opera monumentale del Tomasi la salmodia, ovvero Cantico che la tradizione biblica aveva assegnato a Giuditta dopo l’uccisione di Oloferne.
Si tratta del Canticum Judith che il presbitero della Congregazione dell’Oratorio romano collaziona sia offrendo la versione detta Vetus, sia quella detta Vulgata. Proprio l’interesse mostrato dal biblista per la storia vetero-testamentaria di Giuditta, insieme alla produzione poetica dello stesso Bianchini, ci consente di ritenere questi l’autore delle modifiche al libretto di Metastasio. L’attività letteraria del Bianchini, testimoniata da Antonio di Villarosa nell’opera Memorie degli scrittori filippini o siano della Congregazione dell’Oratorio di San Filippo Neri raccolte dal marchese di Villarosa, Napoli, 1837, è documentata dalle sue poesie manoscritte conservate presso la Biblioteca Vallicelliana in Roma. Un componimento poetico, in particolare, dedicato alla monacazione di una nobildonna romana adotta chiari ed evidenti stilemi riferiti alla “donna forte”, espressione con cui l’autore della Historia esalterà in Betulia liberata il ruolo di Maria, madre di Cristo, identificazione della Chiesa, intesa quindi non solo e non più come “mater misericordiosa” ma come madre protettrice dei cristiani e punitrice dei nemici della cattolicità.
Il culto devozionale per Maria solleciterà il Bianchini all’importante recupero della funzione teologico-religiosa svolta da Cesare Baronio nella storia della Congregazione di San Filippo Neri. Sarà grazie proprio alla preparazione degli Annali del Baronio che il Bianchini riuscirà a fare attribuire il titolo di Venerabile al seguace e compagno forse più amato dal santo. Con gli studi del Bianchini su Cesare Baronio è valorizzata l’assoluta preminenza che quest’ultimo assegna al ruolo di Maria, già fortemente presente nell’ispirazione religiosa originaria di Filippo Neri tanto da costituire il centro visivo devozionale, come antica icona della religiosità popolare medievale recuperata nell’altare maggiore delle Chiesa Nuova, all’interno del grande dipinto Vergine con bambino di Pietro Paolo Rubens.
Il fondamentale valore simbolico-religioso filippino offerto dalla duplice iconografia pittorica compariva nuovamente nell’immagine scultorea a sbalzo nel timpano della facciata della Chiesa Nuova. Ad essa si rifaceva proprio Cesare Baronio disponendo che ogni pubblico evento della Congregazione fosse da allora in poi sotto la protezione dell’immagine, come tale considerata il Signum magnum della vita del clero secolare e dei suoi fedeli, dalla stampa di ogni atto alle celebrazioni liturgiche.
L’origine della severa iconografia mariana proveniva dall’Apocalisse di Giovanni, il discepolo prediletto di Cristo, al quale Egli, sulla croce sul punto di morire, affida Maria perché Ella, a sua volta, prenda al suo posto Giovanni come figlio, proprio come lo stesso Metastasio nell’oratorio La passione di Gesù Cristo del 1730 ne farà la parafrasi poetica: «L’uno all’altro accennando/Con la voce e col ciglio,/Me provvide di madre, e lei di figlio».
Giuseppe Bianchini, nel recupero e nella valorizzazione dell’opera del Baronio, applica alla devozione ed al culto di Maria il metodo già seguito per illustrare su basi archeologiche la sua Historia ecclesiastica. Egli connette i primari segni iconici dell’ispirazione religiosa filippina proprio alla fonte originaria depositata nell’Apocalisse di Giovanni, per ridisegnare completamente e del tutto in forma nuova il ruolo di Giuditta nel finale di
Betulia liberata.
La vedova di Manasse dell’Antico Testamento, diviene figura di Maria e sua profetica anticipazione nel ruolo di baluardo insuperabile, scudo e difesa che abbatte il male attentatore dell’integrità e salvezza dei figli della Chiesa.
Maria come Chiesa, cioè unità inscindibile dei cristiani, ha il diritto di difendere se stessa e i propri figli annientando chi vuole recare distruzione e divisione tra loro. Le modifiche con le quali Giuseppe Bianchini inserisce nuovi versi nell’azione sacra di Metastasio hanno le finalità di sottolineare l’ispirazione teologica che distingue la Congregazione dell’Oratorio dalla Compagnia di Gesù, e rinviano anche a precisi significati teologico-politici resi attuali e urgenti dalle condizioni storiche di Roma e dell’Europa negli anni Quaranta del Settecento. Giuditta è, infatti, figura di Maria nel mutato recitativo finale introdotto ex novo dal Bianchini, parafrasi quasi testuale dell’Apocalisse giovannea, dopo il Coro degli esultanti abitanti di Betulia per l’intervento trionfante di Dio sui nemici del popolo eletto, nei versi rivolti inaspettatamente a rivelare il vero senso e significato dell’uccisione di Oloferne:
Ma qual m’ingombra i sensi
Improvviso stupor! Qual lume ignoto
Nel pensier mi lampeggia! Intendo, intendo,
Quanto mi scuopre il Cielo;
Popoli, udite, un gran Mistero io svelo.
Altra Giuditta sorgerà. La veggo
Terribile all’aspetto
Qual Falange ordinata; e a paragone
Della Luna, del Sol bella, ed eletta.
S’arma già di vendetta
Contro il vero Oloferne. Opprime il Capo
Di Lui, che sovra l’Aquilone, e gl’astri
Tentò posar il Soglio:
Di Lui, che pien d’orgoglio
Dopo il fallo primiero,
Su i miseri mortali ebbe l’impero.
Cade già quel Tiranno: il Germe umano
Pace respira: è la catena infranta,
Di servitù crudele:
Nata la Gloria sua vede Israele.
Ah sì, mio Dio, tu affretta
La pienezza de’ Tempi:
Le tue promesse, i nostri voti adempi
Chi sarà annientato dall’opera di giustizia e salvezza di Maria, “altra Giuditta”? Chi è il vero Oloferne? Solo in apparenza e a una lettura superficiale il tiranno può essere identificato con Tito e la dinastia Flavia sotto la quale Cristo subì la croce e più tardi Israele venne distrutta e costretta alla deportazione e dispersione del suo popolo. è poco credibile che il poeta oratoriano, affidandosi ad un inedito straniamento storico, abbia richiesto l’espiazione della colpa originaria, in nome della giustizia trionfante di Maria, idest della Chiesa, ai pagani imperatori romani e/o ai loro moderni epigoni cristiani, ovvero un’impossibile conversione agli ebrei. Del resto, Israele non costituisce minaccia tale per Roma e il mondo cattolico europeo da meritare un ammonimento così solenne e ultimativo, ovvero notificare al popolo ebraico la premonizione che presto questo dovrà riconoscere in Cristo il paraclito tante volte annunciato nell’Antico Testamento. La sproporzione quasi affatto retorica e inutilmente ridondante tra la rivelazione e i modestissimi effetti che essa conseguirebbe, consente di identificare nel vero Oloferne il mondo islamico – come è stato proposto da quasi tutta la musicologia e la critica letteraria – per i passati ed anche recenti tentativi da parte dell’Impero ottomano di espandersi ed invadere, ad inizio Settecento, l’occidente cattolico.
Senonchè anche se dotato di maggiore verosimiglianza storica, anche il vero senso della rivelazione di Giuditta perde di consistenza a fronte sia dell’ormai lunga stasi offensiva dell’impero ottomano – (questo muoverà nuovamente le sue armate verso i confini occidentali dell’impero asburgico soltanto negli anni Ottanta del secolo, durante il regno di Giuseppe II, dopo avere subito tra fine Seicento e primi anni del Settecento cocenti sconfitte ad opera delle armate imperiali degli Asburgo guidate dal principe Eugenio di Savoia) – sia perché ben altri conflitti sono in corso in Europa centrale che vedono direttamente fronteggiarsi regni e popolazioni cristiane. Nel 1743 è in pieno svolgimento infatti la Guerra di Successione austriaca.
Carlo Alberto di Baviera contende a Maria Teresa con l’aiuto di Francia, Spagna e Prussia il diritto per gli Asburgo a conservare il titolo e il potere politico nell’Europa germanica. L’Elettore di Baviera riesce addirittura a farsi nominare dalla Dieta di Francoforte Imperatore con il nome di Carlo VII e, approfittando dell’incerta guida dell’esercito di Maria Teresa, ad occupare per un breve periodo gran parte dell’Austria, prima di concludere la sua vita terrena improvvisamente.
La morte di Carlo Alberto di Baviera lascia perciò alla figlia di Carlo VI l’opportunità di riprendere progressivamente il controllo dei territori, dividere gli avversari e negli anni seguenti finire vittoriosamente la guerra riconquistando finalmente, insieme al marito Francesco di Lorena, il titolo imperiale.
L’aria di Giuditta con cui Giuseppe Bianchini conclude Betulia liberata sembra dare corpo e credito a rinvii storico-politici, nonché teologici, di maggiore attinenza rispetto agli interessi della Chiesa entro gli assetti e gli equilibri da questa auspicati in Europa.
Non altrimenti che attraverso la relazione e la lettura degli eventi politici connessi alla Guerra di Successione austriaca, può essere realisticamente inteso il veemente tono di appello che i versi finali dell’aria di Giuditta assumono nel congedarci dalla sacra rievocazione della biblica e mitica Betulia:
Sì: da’ tuoi celesti giri
Volgi a noi pietoso il ciglio:
Mira i voti, odi i sospiri
Della oppressa Umanità.
Dona a noi la DONNA FORTE,
Che col braccio del Gran FIGLIO,
Colpa insieme, Averno, e Morte
Vincitrice abbatterà.
Giuseppe Bianchini nella «DONNA FORTE» non solo si richiama direttamente al culto devozionale, spirituale e teologico di Maria, ma sembra rinviare all’evento laico e storico, divenuto anch’esso icona della memoria politica europea, dell’arrivo di Maria Teresa a Bratislava (allora facente parte del Regno d’Ungheria), e dinanzi alla Dieta della nobiltà ungherese schierata per ascoltarla, in sella al suo destriero con in braccio il primo erede maschio da poco nato (il futuro Giuseppe II), chiedere il sostegno e l’alleanza della nazione ungherese e della sua temibile cavalleria nella guerra per la difesa e il mantenimento agli Asburgo e a lei stessa del Sacro Romano Impero Germanico.
La politica di Benedetto XIV, pontefice regnante dal 1740 fino al 1758, il cui ruolo diplomatico con Vienna negli anni Trenta come cardinale Lambertini ha assicurato alla Chiesa nuovi positivi e durevoli rapporti con l’Impero, dopo la crisi ultra ventennale della Guerra di Successione spagnola, sembra decisamente propendere per una conclusione del conflitto europeo a favore degli Asburgo e di Maria Teresa.
Se questo è il valore politico simbolico offerto dalle modifiche (e aggiunte) del Bianchini ai versi di Metastasio nei quali il vero Oloferne identificherebbe o il temerario quanto sfortunato Carlo Alberto di Baviera, ovvero e preferibilmente il suo mandante, Federico II di Prussia, molto più pericoloso sia sul piano politico-militare, sia soprattutto su quello confessionale essendo questi il sovrano del più potente regno protestante nell’Europa continentale, rimane da comprendere come e perché il testo poetico del Bianchini, dopo aver dato all’azione sacra del Poeta Cesareo una caratterizzazione evénémentielle così esplicita per l’esecuzione nel 1743 con le musiche di Jommelli, venga confermato sic et simpliciter negli anni seguenti fino ad essere ancora una volta affidato, immodificato, all’intonazione di Pasquale Anfossi nel 1781.
Certamente la risposta al cruciale quesito è nella fondamentale valenza del culto mariano, leit-motiv religioso e spirituale della Congregazione di San Filippo Neri, espresso dal Bianchini nel lungo recitativo finale di Giuditta. L’unità indissolubile della Chiesa invocata dagli oratoriani come vittoriosa su ogni male ed avversario della verità e della fede, si intreccia ancora una volta negli anni Settanta del Settecento con le controversie politico-giurisdizionali tra il papato e gli stati assoluti dell’ancien régime. All’interno della Chiesa, le tensioni provocate dalle pressanti richieste avanzate ai pontefici da Spagna, Francia, Portogallo, Napoli, perché essi limitino l’ingerenza della Compagnia di Gesù alle corti di questi sovrani e presso le colonie in America latina, Asia e Africa – a cui farà seguito una vera e propria persecuzione e cacciata dei membri dell’ordine dai territori europei ed extraeuropei – sollecitano processi di riforma da tempo invocati quanto inascoltati.
Iniziative ad opera di teologi e congregazioni religiose, sensibili al rinnovamento spirituale e sociale di Chiesa e papato per il sostegno e l’alleviamento dei bisogni dei poveri e dei diseredati e, al tempo stesso, la liberazione delle rendite immobiliari proprietà diretta della Chiesa di Roma e/o degli ordini religiosi in tutto il mondo della civilizzazione europea, sollecitano ai papi interventi urgenti per una forte attenuazione della struttura gerarchico-monocratica della stessa Chiesa e delle tendenze egemoniche delle istituzioni religiose come appunto la Compagnia di Gesù, che maggiormente identificano il papato di Roma con la conservazione di poteri tardo feudali ed economico-sociali estranei alle origini e ai fondamenti spirituali del cattolicesimo. Se già nel 1768 la Spagna decreta l’allontanamento dai propri territori della Compagnia di Gesù, seguita ben presto da analoghi provvedimenti di Napoli, Portogallo e Francia, perché proprietà dell’ordine e della stessa Chiesa vengano requisite e/o vendute e poste a disposizione degli strati sociali più deboli allo scopo di allentare la pressione sulle monarchie assolute e sulle classi nobiliari, la Chiesa, eleggendo nel 1769 papa Clemente XIV (Giovanni Lorenzo Ganganelli), prenderà l’eccezionale storica decisione di sopprimere l’ordine religioso fondato da Ignazio di Loyola.
A quattro anni dalla sua elezione, il 21 Luglio del 1773, Clemente XIV nel Breve, Dominus ac Redemptor noster decreta lo scioglimento della Compagnia di Gesù:
«[…] con ben maturo consiglio, di certa scienza, e con la pienezza dell’Apostolica Potestà, estinguiamo e sopprimiamo la più volte citata Società, e annulliamo e aboliamo tutti e singoli gli uffici di essa, i ministeri e le amministrazioni, le case, le scuole, i collegi, gli ospizi, e qualunque altro luogo esistente in qualsivoglia provincia, regno, e signoria e in qualunque modo appartenente alla medesima.»
Papa Ganganelli, filosofo e teologo, dopo essere stato allievo del sacerdote, scienziato e filosofo Giovanni Bianchi, detto Iano Planco, che a Rimini ha promosso nel 1745 la rinascita dell’Accademia dei Lincei, inizia a Roma la carriera ecclesiastica sotto la protezione di Benedetto XIV, divenendo cardinale alla fine degli anni Cinquanta per nomina di Clemente XIII, Rezzonico.
L’amicizia con i dotti riminesi, da Giovanni Cristofano Amaduzzi a Giuseppe Garampi, da Paolo Maria Paciaudi a Giovanni Lami, esponenti di una sincera apertura verso le correnti scientifiche e filosofiche illuministiche e dell’esigenza di un rinnovamento morale e politico della Chiesa, rende particolarmente invisa ai Gesuiti l’elezione a papa del Ganganelli, sebbene egli s’impegni a non cedere alle pressioni esercitate dagli stati assoluti, durante il pontificato di papa Carlo Rezzonico, a riguardo della Compagnia di Ignazio di Loyola. Ma sono proprio i convincimenti profondi del nuovo pontefice, la sua adesione non già al partito filo-giansenista romano ma alla necessità di orientare etica e politica della Chiesa al rifiuto del probabilismo morale e della doppia verità, posizioni dottrinarie care alla spiritualità gesuitica, e a preferire all’opposto una rigorosa riforma del clero e del comportamento pubblico di ogni suo membro nei riguardi delle istanze di tutti i credenti e non credenti a qualsiasi classe e ceto appartengano, a fargli decidere la soppressione della Compagnia di Gesù, considerata come un ostacolo insormontabile per la ricostruzione dei rapporti tra la fede cattolica e le richieste e i bisogni sociali ed economici, le aspirazioni politiche degli uomini di quell’epoca. Occorre, comunque, ribadire, al di là dell’attenzione e simpatia che Clemente XIV certamente ebbe per i membri del circolo dell’Archetto, la sua autonoma formazione culturale e spirituale.
Il Ganganelli, come allievo del Planco, fu indirizzato a studi di teologia e filosofia, e fu perciò a contatto con quel centro di erudizione e “nuovi” saperi che, oltre al già citato Amaduzzi, annoverava direttamente o attraverso scambi epistolari personaggi come il “vecchio” Ludovico Antonio Muratori e Pietro Verri. Peraltro, l’acquisizione da parte della curia romana dell’agguerrito e sapientissimo gruppo riminese iniziata già con la chiamata a Roma dello stesso Lorenzo Ganganelli da parte di papa Benedetto XIV, proseguirà con il trasferimento a Roma dello stesso Planco, dell’Amaduzzi e del Garampi.
Formato da scienziati della natura come appunto è in origine Iano Planco, medico, da un grecista, scienziato e filosofo come l’Amaduzzi, da un biblista come il Garampi – (che più tardi abbraccerà la carriera diplomatica, sarà anche Nunzio apostolico a Vienna dove diverrà buon amico di Metastasio e ne raccoglierà sul letto di morte le ultime parole) – questo vero e proprio sodalizio di amici provenienti dalla Romagna, tra Sant’Arcangelo dove è nato Lorenzo Ganganelli, Rimini dove nascono Giovanni Bianchi (Planco) e Giuseppe Garampi, e Savignano sul Rubicone, luogo d’origine dell’Amaduzzi, è unito dalla comune convinzione che la fede cattolica abbracciata fino a scegliere di far parte del clero della Chiesa non impedisca loro di individuare, con i moderni metodi della filosofia e della scienza, le possibilità di concreti interventi per trasformare e migliorare le condizioni generali della vita degli esseri umani, sollecitando in tal senso concrete iniziative che gravano sulle responsabilità dei grandi ed universali organismi della loro epoca, papato, Chiesa, regni e Impero di cui essi stessi direttamente o indirettamente sono parte. La collaborazione tra l’Amaduzzi e Clemente XIV nella stesura del Breve che decreta nel 1773 lo scioglimento della Compagnia di Gesù, rappresenta il compimento del percorso ideale comune a questi intellettuali cattolici illuminati, e al tempo stesso l’avvio di quel progetto di riforma interna della Chiesa – che questa ha sempre rinviato dopo lo scisma luterano – come il più importante tentativo di ricomposizione tra ragione laica e fede religiosa.
Se quindi il circolo del cosiddetto filo-giansenismo romano, sorto intorno al cardinale Neri Corsini nel palazzo alla Lungara già di Cristina di Svezia, darà con Giovanni Bottari e Pier Francesco Foggini il prevedibile e quasi affatto naturale sostegno del ceto dei colti alla presenza dei “riminesi” nella Roma dei decenni Sessanta e Settanta del secolo, quella che, con una certa approssimazione, si può intendere come la “risonanza sociale” del mutato clima religioso-pastorale e culturale inaugurato dall’avvento al papato di Clemente XIV, sarà espressa e come naturalmente affidata, ancora una volta, alla produzione di azioni sacre per musica eseguite presso il borrominiano Oratorio della Congregazione di San Filippo Neri e presso la contigua Chiesa di S. Maria in Vallicella.
A prima vista non parrebbe che le esecuzioni di azioni sacre da parte dei seguaci del Santo dei poveri abbiano voluto esprimere un’esplicita e significativa adesione all’ascesa del Ganganelli al pontificato e alla sua politica, considerando la costante, cospicua ed incessante produzione di oratori per musica sia nel periodo antecedente sotto il papato di Benedetto XIV e Clemente XIII, sia anche dopo, con Pio VI. Occorre però osservare che la già rilevata prevalente presenza, in senso assoluto e percentuale, delle intonazioni degli oratori di Pietro Metastasio nel Settecento, negli anni Sessanta e Settanta raggiungono il loro tetto massimo; inoltre, la Congregazione si assicura proprio nei primi anni Settanta, nel corso della fase cruciale del pontificato di Clemente XIV, l’apporto di Pasquale Anfossi, vale a dire del compositore più in vista a Roma in quegli anni, capace di imporsi all’attenzione dei romani insieme al suo antico maestro a Napoli, il famoso Piccinni, e, con l’amico Antonio Sacchini e il compositore di oratori, Giovanni Battista Casali, alternarsi nel ruolo di maestro di cappella nell’Oratorio della Congregazione dei Filippini.
L’11 Marzo del 1774 nel Libro dei Decreti della Congregazione, il R.P. Vincenzo Vettori, Preposito della Congregazione, fa annotare: «In caso di vacanza del Maestro di Cappella Signor Casali si sostituisce il Signor Anfossi ». A fianco del Decreto, sul margine di sinistra del foglio, quasi a sanzionare l’avvenuta e provvisoria sostituzione del Casali, peraltro musicista particolarmente gradito alla Congregazione, benvoluto e promosso da Benedetto XIV a maestro di Cappella anche in S. Giovanni in Laterano, il Preposito scrive o fa scrivere: «Anfossi Maestro di Cappella».
Il contributo di Pasquale Anfossi alle intonazioni degli oratori di Metastasio nella Congregazione romana di S. Filippo Neri inizia con la composizione di Sant’Elena al Calvario, eseguita la prima volta il 24 Marzo del 1771; prosegue con Giuseppe riconosciuto, l’1 Aprile del 1776, e si conclude con Betulia liberata, il 16 Dicembre del 1781. Dopo le prime esecuzioni, qui sopra riportate, il primo oratorio avrà 21 repliche, il secondo 8, il terzo 17, considerando soltanto quelle presso l’Oratorio romano della Congregazione. Betulia liberata risulterà l’azione sacra di Metastasio maggiormente eseguita in casa oratoriana, in virtù dell’intonazione di Niccolò Jommelli, anche essa più volte ripresa dalla Congregazione, e in ragione, soprattutto, della straordinaria circostanza dell’impiego da parte di Pasquale Anfossi dello stesso libretto modificato da Giuseppe Bianchini per il compositore di Aversa. Le finalità teologico-politiche qui in precedenza analizzate e descritte a proposito della Betulia liberata intonata da Niccolò Jommelli nel 1743, a seguito dell’improvviso e inatteso decesso di papa Ganganelli nel 1774, della lunga e laboriosa elezione del successivo pontefice nel 1775, papa Giovanni Angelo Braschi con il nome di Pio VI, della visita apostolica ordinata dal nuovo papa presso la Congregazione di Santa Maria in Vallicella per indagare i sacerdoti accusati di fomentare simpatie filo-gianseniste tra i fedeli e gli stessi membri secolari, gettano nuova luce sugli intrecci tra l’intonazione dell’oratorio di Metastasio, la crisi dei rapporti tra i più importanti ordini religiosi sorti dopo il Concilio di Trento, e i forti sommovimenti culturali e politici di autorevoli membri della Chiesa. Tra questi è particolarmente significativo quello manifestato dal vescovo di Pistoia Scipione de’ Ricci, in contatto con gli interlocutori preferiti di Clemente XIV, cioè Giovanni Cristofano Amaduzzi, in particolare, Giovanni Bianchi e il discepolo Giuseppe Garampi.
È stata certamente sorprendente agli occhi del popolo di Roma la lunga e sofferta elezione di Pio VI che, iniziata a poche settimane dalla morte di papa Ganganelli avvenuta il 22 Settembre 1774, condusse alla nomina a pontefice di Angelo Braschi soltanto il 15 Febbraio 1775, ad oltre quattro mesi dal decesso di Clemente XIV.
Un così lungo conclave fu occasione della apparizione sulla mozza statua di Pasquino della consueta anonima satira poetica in riferimento alle trattative intercorse tra i RR. Cardinali per accordarsi su un successore al soglio di San Pietro più corrivo e in linea con la tradizione della Chiesa di quanto non ne fosse stato osservante Clemente XIV.
La satira poetica, sintomo di ben altre voci e preoccupazioni serpeggianti a Roma, altro non era che il melodramma Il conclave dell’anno MDCCLXXIV, circolante prima come manoscritto poi come pubblicazione, con la falsa indicazione di stampa «In Roma per il Kracas / All’Insegna del Silenzio», in realtà mai realizzata dalla famosa gazzetta, ed invece segretamente eseguita dal tipografo Antonio Molini a Firenze. Sull’edizione a stampa, il melodramma recava altre importanti falsificazioni: «La poesia è del celebre Sig. Abate Pietro Metastasio in gran parte [corsivo nostro] / la Musica è del Sig. Niccolò Piccini [in realtà: Piccinni, n.d.r.]».
Infine, nel libretto, secondo regola e consuetudine per tali pubblicazioni, si informava dove e quando il melodramma sarebbe stato eseguito: «Il Conclave / dell’anno MDCCLXXIV / Dramma per musica / Da recitarsi / nel Teatro delle Dame / Nel Carnevale del 1775 / Dedicato / Alle Medesime Dame».
Dall’improbabile messa in scena al Teatro delle Dame nel Carnevale del 1775, anno giubilare nel quale, per storica consuetudine, qualsiasi spettacolo teatrale era vietato – (inoltre, si badi bene: prima dell’elezione a papa di Giovanni Angelo Braschi il 15 febbraio 1775) –, alle altrettanto false attribuzioni del testo poetico a Metastasio e delle musiche al famoso compositore Niccolò Piccinni, l’insieme della clamorosa contraffazione connotava un malessere socialmente diffuso dopo la brusca interruzione del processo riformatore intrapreso da Clemente XIV, riverberatosi all’interno dell’inusuale conclave degli anni 1774-1775. Il falso melodramma, prontamente inviato a Vienna a Metastasio, ed anche tradotto in tedesco, come risulta dal deposito di una copia, stampata a Norimberga, presso la Nationalbibliothek di Vienna, non sfuggì alla lettura dell’innocente Poeta Cesareo che smentì, con la sua proverbiale olimpica serenità, l’apocrifa attribuzione dell’opera nella lettera a Francesco Grisi il 24 Aprile 1775 dalla sua casa viennese:
Dio perdoni a quell’incognito poeta che (non so se per odio o per benevolenza) ha impiegati tanti de’ poveri versi miei nel dramma del Conclave, e mi ha reso in qualche modo complice del suo delitto. Ma si è veduto pur troppo assai volte nelle escandescenze satiriche far condannabile abuso del credo e del pater noster: onde non ho ragione di lagnarmi. […] vi consiglio a non affliggervi troppo per le stravaganze degli eventi del nostro secolo, perché sempre ne hanno abbondato anche i passati.
Quale vero autore del melodramma venne rapidamente individuato l’abate Gaetano Sertor, noto compositore di libretti per il teatro musicale. Questi venne imprigionato in Castel Sant’Angelo, e soltanto l’invio di un suo memoriale a Pio VI, sotto forma poetica e in ottava rima, lo salvò dalla condanna a morte. Il Sertor, dopo la liberazione, preferì togliere il disturbo trasferendosi per il resto della vita a Venezia. Peraltro, le precise informazioni sull’andamento del conclave presenti nel dramma – (ora doppiamente apocrifo, dopo cioè le smentite sia del Sertor e prima di tutto di Metastasio) – fecero convergere i sospetti sul principe Sigismondo Chigi che ricopriva la carica di Maresciallo perpetuo del Conclave. Il nobile, di cui erano note le durissime critiche nei riguardi degli intrighi di curia e della corruzione imperante a Roma, era stato l’unico laico ammesso alle discussioni e votazioni dei cardinali e preposto al controllo della segretezza di ogni operazione. Del cambiamento del clima alla corte papale con l’elezione di Pio VI, nella circostanza poco propenso al perdono, ne fece le spese il principe Sigismondo che si vide bruciare le copie del Conclave proprio dinanzi a palazzo Chigi, e venne poi esiliato a Padova negli ultimi anni della sua vita, lontano per sempre dalla sua amata Roma e dagli scavi archeologici cui egli stesso sovrintendeva a Porcigliano con l’aiuto del bibliotecario Ennio Quirino Visconti. (En passant, è bene ricordare che non tutte le copie del famigerato libretto andarono distrutte nel rogo ordinato dalla Santa Sede, se, come riferiscono i giornali dell’epoca, durante l’effimera Repubblica romana proclamata il 15 Febbraio 1798, il Conclave venne effettivamente letto in pubblico e recitato a teatro, dopo che Pio VI, fatto prigioniero dai generali di Napoleone, deportato di città in città terminava la sua esistenza a Valence il 22 Agosto 1799. Inoltre l’esistenza, oggi, di molte copie del libretto in numerose biblioteche del mondo, conferma per il Conclave del MDCCXXIV la “rigenerazione” pressoché istantanea dalle ceneri del rogo con cui la Santa Sede s’era illusa di avergli inflitto condanna definitiva e oblìo perpetuo).
Il 3 Agosto del 1776, Pio VI, conclusa la tormentata vicenda della sua elezione, dopo che l’1 di Aprile la Congregazione di San Filippo Neri riproponeva nel suo Oratorio la grande lezione etico-religiosa di Metastasio con l’esecuzione dell’azione sacra Giuseppe riconosciuto e le musiche di Anfossi, inviava a Santa Maria in Vallicella una commissione composta dal cardinale vicario Marcantonio Colonna, dal segretario di Stato cardinale Pallavicini, dal cardinale Carafa Traietto ( personaggio quest’ultimo protagonista del Conclave) e da Monsignore Sylva, segretario. Il provvedimento straordinario deciso dalla Santa Sede era la Santa Visita Apostolica, con le cariche più elevate della gerarchia ecclesiastica, dopo il pontefice, che assumeva temporaneamente il governo della comunità della Congregazione dell’Oratorio per stabilire così, mediante interrogatori dei preti secolari, se e quali di loro si fossero resi responsabili di discorsi e azioni a favore del giansenismo. La Santa Visita Apostolica si svolgeva nella sede degli oratoriani sino al 10 Luglio 1778 – nell’arco di tempo di quasi due anni – concludendosi con l’emanazione di una serie di decreti il più rilevante dei quali era l’espulsione dalla Congregazione di San Filippo Neri di padre Alessandro Belloni.
Come prefetto della musica, il Belloni era responsabile della committenza, preparazione ed esecuzione degli oratori per musica, attività storicamente rappresentativa dell’insieme della vita spirituale e pubblica degli oratoriani nella società romana e presso il mondo dei fedeli della Chiesa di Santa Maria in Vallicella.
Sotto la cura di padre Belloni erano state preparate ed eseguite, in diversi periodi nell’arco di un decennio, le azioni sacre intonate da Niccolò Jommelli, Giovanni Battista Borghi, Giovanni Battista Casali, Francesco Digne, Pasquale Anfossi.
Il decreto della Santa Visita Apostolica allontanava così per sempre dalla Congregazione il lavoro e l’apporto di uno dei padri che più aveva contribuito a promuovere la collaborazione di famosi compositori in uno tra i periodi più interessanti per la storia artistico-culturale della Chiesa madre oratoriana nella seconda metà del secolo. Una piccola serie di decreti apparentemente minori, sia per le sanzioni comminate, sia perché redistribuiva diversamente incarichi e mansioni tra i preti secolari, completava il periodo non breve nel quale la Santa Sede avocò straordinariamente a sé il governo della Congregazione, fino ad allora considerata e rispettata come una vera e propria Repubblica all’interno della struttura gerarchica della Chiesa cattolica.
Nonostante lo storico oratoriano Carlo Gasbarri abbia ritenuto di valutare la Visita Apostolica più come un’iniziativa rivolta a sedare conflitti verbali e intemperanze tra vecchi e nuovi preti secolari, messi gli uni contro gli altri soprattutto da padre Alessandro Belloni, invece che intesa a sradicare un’improbabile eresia giansenista impiantatasi anche in Santa Maria in Vallicella, egli non può fare a meno di condividere il Decreto finale il quale raccomandava ai preti della Congregazione:
[…] una condotta pienamente conforme al loro Instituto, ingiungendo specialmente al Padre Superiore di usare, e far usare dalla Comunità un assoluto silenzio sopra tutto ciò che è accaduto in passato, la dovuta dipendenza e subordinazione al Signor Cardinale Vicario, l’incessante richiamo alla osservanza di quegli individui che sa averne molto deviato per l’addietro, e di considerare e trattar tutti con piena imparzialità , ed uguale amorevolezza.
Del resto, sia «l’assoluto silenzio […], la dovuta dipendenza e subordinazione al Signor Cardinale Vicario […] l’osservanza di quegli individui che sa averne molto deviato per l’addietro» rinviano in maniera non equivoca alle inquietudini degli oratoriani, registrate nei verbali degli interrogatori svolti dai cardinali, come «il sostegno e la preferenza in comunità alla dottrina agostiniana della fede piuttosto che a quella tomista», alle «idee moderne», e, per contro, «l’abolizione delle immunità ecclesiastiche, il biasimo verso le Crociate, l’abbandono di particolari devozioni mariane definite ‘seccature’, l’opposizione alla musica e a certe devozioni nell’oratorio», manifestano le avvisaglie di un’aperta critica del clero secolare verso la Santa Sede. A tutto ciò, lamentele, confessioni ed osservazioni, fatte dai più giovani tra i preti oratoriani negli interrogatori a danno degli anziani, esprimevano anche l’insofferenza dei laici ai sermoni in chiesa con la manifestazione di segni di indipendenza che erano rivolti anche verso le autorità maggiori, mentre si andava sostenendo che «Clemente XIV era un santo e se ne citavano dei miracoli presunti».
Le decisioni assunte dalla Visita Apostolica mettevano effettivamente termine ad ulteriori e gravi rischi di saldatura tra il disorientamento subentrato nel cuore dell’istituzione religiosa più vicina alla sensibilità dei semplici e degli umili e lo stesso mondo laico e popolare di Roma, nel momento in cui Pio VI riusciva abilmente a respingere le accuse di eresia lanciate da esponenti del Santo Uffizio nei riguardi di Giovanni Cristofano Amaduzzi per i rapporti intercorsi tra quest’ultimo e il vescovo filo-giansenista di Pistoia, Scipione de’ Ricci.
Saggiamente la Santa Sede e Giovanni Angelo Braschi – che, accettando la nomina a pontefice s’era assunto la responsabilità di non revocare l’atto di scioglimento della Compagnia di Gesù decisa nel Breve di Clemente XIV, soprattutto allo scopo di non aumentare il livello di conflittualità sia con gli Asburgo sia con i Borbone in Francia, Spagna e Regno di Napoli – , contenevano all’interno della curia cardinalizia le critiche verso il gruppo degli intellettuali cattolici vicini al magistero riformatore di Clemente XIV. Sotto la protezione del granduca Leopoldo di Toscana, fratello dell’imperatore Giuseppe II, il Sinodo dei vescovi a Pistoia promosso da Scipione de’ Ricci mirava ad attribuire alle autorità ecclesiastiche locali un proprio indipendente statuto ed autonomia giurisdizionale rispetto all’unica autorità del pontefice quale guida suprema della Chiesa.
Il Sinodo sarebbe stato sconfessato come eretico da Pio VI soltanto nel 1794 con la Bolla Auctorem fidei, cioè a distanza di due anni dalla morte di Leopoldo II di Asburgo. Nei riguardi dell’assolutismo riformistico di Giuseppe II , mirante a sottomettere le proprietà e le rendite fondiarie della Chiesa alla giurisdizione dell’Impero, papa Pio VI, dopo la morte di Maria Teresa nel 1780 – (a seguito della quale i processi di “statalizzazione” dei beni ecclesiastici furono accelerati) – cercò di arginare le pretese dell’imperatore recandosi a Vienna nella primavera del 1782. Il viaggio del pontefice fu l’occasione perché la Congregazione di San Filippo Neri potesse farsi perdonare per i trascorsi filo-giansenisti e nuovamente mostrare fedeltà al pontefice e spirito di servizio per Santa Madre Chiesa attraverso la valenza simbolica e politico-religiosa delle azioni sacre per musica.
L’incarico di mettere nuovamente in musica Betulia liberata conferito a Pasquale Anfossi per l’esecuzione nell’Oratorio romano della Congregazione il 16 Dicembre 1781, sotto la gestione del padre Andrea Micheli, Prefetto della musica, significava al tempo stesso rappresentare in Maria, madre del Salvatore, l’unità indissolubile dei credenti e la Chiesa vittoriosa sulle forze distruttive del male, e ammonire l’imperatore, con l’immagine del «vero Oloferne», contenuta nell’appello di Giuditta nel recitativo finale composto da Giuseppe Bianchini nel lontano 1743, affinché egli riducesse sia le pretese sulle proprietà ecclesiastiche e sugli ordini religiosi sia sconfessasse definitivamente le eresie dottrinarie ed episcopaliste dell’ex vescovo di Treviri, Nikolaus von Hontheim, alias Giustino Febronio. Anzi, proprio lo stesso Hontheim poteva essere individuato come figura del «vero Oloferne». Come a dimostrare l’efficacia dell’ammonimento espresso nell’azione sacra, grazie all’opera di monsignore Giuseppe Garampi, divenuto strenuo e convinto sostenitore dell’unità della Chiesa e del primato del Papa, il viaggio di Giovanni Angelo Braschi a Vienna poté concludersi con un parziale ma importante risultato. Pio VI tornava a Roma avendo ottenuto, con il sostegno di gran parte dei vescovi tedeschi, l’isolamento completo e definitivo delle tesi febroniane sulla destrutturazione dell’unità della Chiesa cattolica e del ruolo del papa come discendente di Pietro e rappresentante di Cristo sulla Terra.
L’intonazione di Pasquale Anfossi della Betulia liberata, dopo l’esecuzione del 1781, fino all’ultima nel 1794, ebbe altre 16 repliche, ininterrottamente ogni anno, nell’Oratorio della Congregazione romana di San Filippo Neri. Nel 1782, l’anno del viaggio di Pio VI a Vienna, fu eseguita addirittura 2 volte, così come nel 1788 e 1789, mentre l’ultima del 1794 coincise straordinariamente – e con ogni probabilità la coincidenza non fu propriamente casuale – con la pubblicazione della Bolla pontificia Auctorem fidei con la quale Angelo Braschi condannava e sconfessava l’opera di Scipione de’ Ricci e il Sinodo dei vescovi di Pistoia come scismatici, ponendo così termine a una certa “strategia dell’attenzione” da lui coltivata nei riguardi degli intellettuali cattolici riformatori legati al pontificato di Clemente XIV. Nel periodo compreso tra la prima esecuzione della sua Betulia liberata e l’ultima, cioè dal 1781 al 1794, la parabola artistica di Pasquale Anfossi – dopo il successo ottenuto proprio con questo oratorio che lo consacrava tra i compositori più versati nel genere musicale, dopo essere divenuto all’Haymarket di Londra direttore dell’Opera italiana, e al ritorno in Italia passare di nuovo a Venezia –, si concludeva a Roma dove il compositore assumeva il ruolo di maestro di cappella sia presso l’Oratorio della Congregazione di San Filippo Neri e sia in San Giovanni in Laterano, a seguito della scomparsa di Giovanni Battista Casali, al quale finalmente egli subentrava in entrambe le cariche.
Anche per le vicende personali del musicista di Taggia, l’anno 1794, nel quale venne eseguita per l’ultima volta a Roma la sua Betulia liberata, coincideva con il pubblico riconoscimento da parte della Chiesa e degli oratoriani del ruolo svolto dal compositore che aveva destinato non solo all’opera e alle azioni sacre di Pietro Metastasio alcune tra le sue più felici forme musicali ma ne aveva interpretato l’autentica e sincera ispirazione poetica al servizio della Fede cattolica, dell’unità della Chiesa e dell’autorità del Sommo Pontefice.
Dopo averlo nominato Maestro di Cappella, gli oratoriani di Santa Maria in Vallicella il 6 Novembre del 1796 annotavano sul Libro dei Decreti:
Si proponga in Congregazione di fissarsi al Sig. Mro Anfossi Scudi quattro il mese non ostante un altro decreto della Congregazione con cui gli si toglieva l’Antico onorario.
Puntualmente, tre giorni dopo la proposta di stipendiare Pasquale Anfossi, nonostante il suo ruolo di Maestro di Cappella in San Giovanni in Laterano avesse in precedenza sollevato i Filippini da oneri aggiuntivi verso il loro più affermato e famoso compositore di azioni sacre nella seconda metà del secolo, il 9 Novembre 1796 veniva sancito, con democratica votazione, dai membri della Congregazione di disporre un vitalizio per il musicista:
Fu risoluto a pieni voti ed affermativamente di dare al Sig. Mro Anfossi scudi quattro il mese Sua vita durante.
La vicenda terrena di Pasquale Anfossi si chiudeva nel febbraio del 1797, e, a poco più di due mesi dalla disposizione del vitalizio, anche la sua scomparsa era registrata nel Libro dei Decreti della Congregazione, con semplicità tutt’affatto notarile quasi a tradire il semplice inesorabile avvicendarsi sul proscenio dell’Oratorio romano di uno tra i molti artefici delle affascinanti musiche in grado di “rivestire” i versi del poeta prediletto per accostare le anime dei fedeli alla Verità:
A di 21 Febbraio 1797 – Essendo morto il Mro Anfossi Detta Congregazione destina per Direttore della Musica di Chiesa il Sig. Sante Pascoli già organista con l’accrescimento di paoli quindici il mese.
Le notizie della vita e dell’attività artistica del musicista risultano ancora oggi incomplete, così come sono inadeguate le conoscenze ed indagini storiografiche sul ruolo svolto da Pasquale Anfossi nella transizione dall’intenso legame coltivato dalla musica del Settecento con la poesia, alla piena autonomia linguistica e formale dell’arte tonale alla fine del secolo.
Anfossi contribuì comunque al decisivo affrancamento espressivo della musica da ogni altro linguaggio se è vero, come è vero, che Franz Joseph Haydn ad Esterháza eseguiva per il suo principe sia la musica strumentale del compositore di Taggia sia le sue intonazioni per i drammi di Metastasio, ed anche la musica di Mozart reca segni evidenti e rilevanti dello studio e degli imprestiti stilistici e formali dall’arte compositiva di Anfossi, sia nell’opera buffa che nelle azioni sacre, da tempo accertati dalla storiografia musicale.
Uno tra i Dizionari biografico-enciclopedici più noto e diffuso nella prima metà dell’Ottocento in Europa, la Biografia Universale Antica e Moderna, pubblicata a Venezia da Giovanni Battista Missiaglia nel 1822, alla voce Anfossi registrava la non effimera presenza della sua musica nella memoria degli uomini e delle donne usciti dalla Rivoluzione Francese, dal Regime napoleonico e approdati, dopo il Congresso di Vienna, nel periodo della restaurazione dell’ancien régime:
Per molti caratteri originale fu lo stile d'Anfossi, quantunque Piccini e Sacchini avuti avesse nobilissimi modelli. È soprattutto insigne nelle parti della chiarezza e dell'ordine, e per una giocondità nell'espressione, con cui d'una vaghezza tutta sua allegra i soggetti, e nel grave stesso contempera il brio e il fulgore. […] Anfossi […] fu solenne nella maestria di avvivare e far leggiadri col canto i gentili ed ilari sentimenti […], e come in altri il genio per soggetti risentiti o concitati o terribili prevalse, così in esso quello dell'amenità e della piacevolezza. […] Negli ultimi anni della sua vita Anfossi non solo di molti dei drammi sacri di Metastasio fece la musica, fra cui l'oratorio della Betulia liberata è riputato un capolavoro, ma pur anche della Clemenza di Tito e della Nitteti […].
Il musicologo tedesco Wolfgang Osthoff, ad oltre centocinquanta anni da questo profilo ottocentesco, e quasi in sorprendente sintonia con esso, nel 1986, forniva un’analisi puntuale dello stile musicale di Pasquale Anfossi, contribuendo così alla piena valorizzazione del compositore:
La sorprendente vivacità, quasi parlante, degli strumenti nell'esprimere lo sforzato arrivo alla decisione, lo spiritoso realizzare del chiaroscuro nell'improvviso piano, dopo l'accento forte segno degli affetti ancora fra loro contrastanti […], tutto ciò corrisponde alla spontaneità parlante e spiritosa della poesia di Metastasio ed al misurato e ragionevole eroismo dei suoi personaggi. […] La musica religiosa [di Anfossi, n.d.r.] si rivela consorella della musica seria dell'epoca. […] Non vuole conservare e continuare uno stile del passato uniformemente indifferenziato, […] uno stile tetro e senza ragione. Vuole invece risvegliare gli umani affetti da una sonnolenza noiosa.
«[Anfossi] non vuole conservare[…] uno stile tetro e senza ragione. Vuole […] risvegliare gli umani affetti da una sonnolenza noiosa». Proprio questo era l’ultimo principale obiettivo che s’era proposto la Congregazione dell’Oratorio, pienamente conseguito dall’ispirazione poetica della musica di Pasquale Anfossi, «ancorata, materialmente e spiritualmente, ai testi di Metastasio; una musica che, nonostante tutte le evoluzioni stilistiche, si nutre dell’ethos e delle forme di questa poesia» (W. Osthoff).
Febbraio
2008
Mario Valente
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