CHARLES BURNEY
Charles Burney e Metastasio
Vienna, Settembre 1772: Burney e Metastasio faccia a faccia
Lord Stormont
si era gentilmente adoperato per farmi ricevere
da Metastasio; ed infine Sua Eccellenza aveva ricevuto da lui un messaggio
assai cortese in cui assicurava che sarebbe stato lieto di vederci entrambi
un qualsiasi pomeriggio che Sua Eccellenza avesse scelto per il nostro
incontro. Fummo assai fortunati poiché Metastasio è di solito inaccessibile
nel pomeriggio, se non per i tre o quattro amici intimi, e al
mattino si poteva essere ammessi solo a una conversazione di carattere
pubblico. Essendo Lord Stormont
impegnato ogni giorno fino al sabato, fissò l’appuntamento
per quel giorno per soddisfare il mio desiderio di conoscere e conversare
col poeta prediletto da ogni musicista che abbia la minima conoscenza
della lingua italiana. Il sabato era ora arrivato, e io attendevo con
impazienza il grande avvenimento. Alle sei di sera Lord Stormont mi accompagnò dal poeta. Lo trovammo in compagnia
di un amico, uno dei bibliotecari imperiali,
quello stesso al quale ero stato presentato alla biblioteca e che aveva
predisposto la mia visita. Questo poeta – come del resto altri grandi poeti prima di lui –
abita molto in alto, al 4° piano. Non saprei stabilire se
i moderni bardi preferiscono dimorare in modo tanto ‘sublime’ per essere
qualche modo al livello del Monte Parnaso, più vicini al
loro signore Apollo, o nei pressi degli altri dei. Tuttavia un motivo assai più semplice e prosaico deve
essere attribuito alla posizione dell’appartamento di Metastasio “alto
il doppio di due piani”: a Vienna l’imperatore gode
della facoltà di appropriarsi del primo piano di ogni casa palazzo
per uso degli ufficiali della sua corte e del suo esercito, e poche abitazioni
sfuggono a questa imposizione. Di conseguenza principi, ambasciatori e nobili abitano i secondi piani: ed
essendo le case grandi e con i soffitti alti, anche il terzo, il quarto
e persino il quinto piano sono idonei ad accogliervi ricche e nobili famiglie.
Il nostro poeta, benché occupi quella parte della casa che in Inghilterra
si considera adatta soltanto per farvi dormire la servitù, ha un appartamento
assai bello ed elegante dove un laureato imperiale
può scherzare con le muse con la dovuta dignità. Fummo accolti festosamente e con grande cortesia, e il suo aspetto mi colpì gradevolmente,
poiché egli non dimostra più di cinquant'anni,
mentre ne ha almeno settantadue, e per la sua età è il più bell’uomo che abbia mai visto. Reca impressi sul suo volto
il genio, la bontà, la correttezza, l’umanità e la rettitudine che sempre
caratterizzano i suoi scritti. Non potevo distogliere
il mio sguardo dal suo viso, così gradevole e degno
di ammirazione. La sua conversazione era in armonia
col suo aspetto: gentile, facile, animata. Riuscimmo a portare
la conversazione sulla musica, ed egli divenne più comunicativo di quel
che
immaginassimo, dal momento che
di solito evita di affrontare un argomento in modo approfondito. Iniziò
dicendo che non era in grado di aiutarmi gran che nelle mie ricerche,
poiché non si era occupato sufficientemente dell’argomento
che mi interessava; tuttavia, nel corso della conversazione, scoprii che
possedeva delle buone conoscenze generali sia di storia sia di teoria
musicale, e fui assai lusingato nello scoprire che le sue idee erano simili
alle mie su molti punti controversi.
Egli sembra soddisfatto della traduzione
dei due primi volumi delle sue opere da parte del signor Hoole; ritiene però, ed io con lui, che se difetta in qualcosa, è nelle arie piuttosto che nei recitativi;
aggiungendo però, a difesa del signor Hoole,
che tradurre la poesia italiana è un’impresa disperata, poiché si tratta
di una lingua musicale la cui dolcezza nessun’altra
può eguagliare. Tra le migliaia di traduzioni e di imitazioni
del suo Grazie agl’inganni tuoi, neppure una l’ha soddisfatto.
Gli chiesi se fosse l’autore di un duetto composto
per quei versi, che mi ero procurato alcuni anni or sono, e gliene cantai
le prime due o tre battute, al che affermò di aver composto qualcosa di
simile.
Parlammo delle diverse edizioni delle sue opere; egli
pensa che le più complete e corrette siano quelle di Torino e di Parigi,
in dieci volumi. È compreso in esse
tutto ciò che egli
intendeva pubblicare, eccetto l’opera Ruggiero,
rappresentata a Milano lo scorso anno. Lord Stormont deplorava che
la sua produzione non fosse disposta in ordine cronologico, ma Metastasio
riteneva che al pubblico non importasse gran
che del fatto che egli avesse scritto prima Artaserse
o Didone;
ammetteva però che era forse opportuno che fossero conosciute le circostanze
che avevano dato origine ad alcune sue opere.
A questo proposito ci raccontò che quando la sua protettrice,
la regina imperatrice, stava per andare sposa al duca di Lorena, egli
ebbe l’incarico di comporre un’opera per questa occasione,
e gli furono accordati diciotto giorni soltanto per scriverla. Immediatamente
si ribellò a questa condizione impossibile da accettare. Ma appena tornato
a casa abbozzò uno schema della storia di Achille
in Sciro; su un grande foglio di carta buttò
giù a grandi linee l'argomento: anzitutto il primo atto, poi gli accadimenti
del secondo, infine la catastrofe del terzo. Quindi distribuì le azioni tra i personaggi: qui un’aria,
là un duetto e ancora un monologo. Poi scrisse il dialogo
e lo divise in scene che furono consegnate, appena finite, al compositore
e poi all’esecutore perché le mandasse a memoria: entro i diciotto giorni
tutto doveva essere pronto, poesia, musica, danza, scene e decorazione. Spesso la necessità accresce la nostra
capacità, ci disse, costringendoci a fare non
soltanto ciò di cui non ci credevamo capaci, anche a farlo con maggiore
rapidità e spesso con risultato migliore di quando abbiamo la facoltà
di scelta e tutto il tempo a nostra disposizione. Egli aveva composto
Hypermnestra in soli nove giorni, ed è da notare
che Achille e Hypermnestra siano
due tra i drammi migliori di Metastasio.
Lord Stormont gli chiese
se non avesse musicato nessuna delle opere, ed egli rispose
che non era un musicista sufficientemente esperto; aveva, invero, talvolta
suggerito al compositore il < motivo
> o il tema di un’aria, ma soltanto per fargli intendere l’espressione
musicale che desiderava fosse data alle sue parole, ma nulla più. Sua
Eccellenza gli disse che il vecchio Fontenelle
aveva affermato che nessun dramma musicale poteva essere perfetto o interessante
se il poeta ed il musicista non erano riuniti
nella stessa persona come avveniva nei tempi antichi; infatti quando fu
rappresentato il Devin du Village di Rousseau che deliziò ogni ascoltatore, Fontenelle, patriarca delle lettere, ne attribuì il successo
proprio all’unione del poeta e del musicista. Metastasio osservò però
che lo sviluppo attuale della composizione musicale richiede tanta abilità
e tanta scienza per quel che riguarda il contrappunto,
e poi la conoscenza degli strumenti, le possibilità dei cantanti e molte
altre cose ancora, che è impossibile ad un poeta o ad un letterato conoscere
a fondo tutto ciò senza dedicarvi troppo tempo e fatica che dovrebbe sottrarre
ai suoi studi.
Non pensava che ora esistesse neppure un
solo cantante che fosse ancora in grado di sostenere la voce al modo dei
vecchi cantanti. Gli spiegai – ed
egli fu d’accordo con me – che
la musica teatrale era divenuta troppo strumentale e che le cantate
dell’inizio del secolo, che erano eseguite col solo accompagnamento del
clavicembalo o del violoncello, richiedevano una esecuzione vocale più
accurata rispetto alle arie attuali, in cui l’accompagnamento rumoroso
nasconde tanto i difetti che i pregi, alleviando comunque il compito del
cantante. Egli mi parve convinto che nella musica
del passato si eccedesse, troppo nell’uso delle fughe,
nel numero delle voci, negli artifici, perché essa potesse essere apprezzata
o capita se non dagli artisti. I diversi movimenti delle varie parti,
le loro inversioni e fioriture erano, a suo parere,
innaturali, e generavano soltanto confusione, mascherando e alterando
la melodia.
Egli mi confermò di essere
stato costretto dal Gravina, all’età di dodici anni, a tradurre l’Iliade
di Omero in italiano in ottava
rima. Accennò pure al fatto di aver composto
versi < all’improvvisa > da bambino, ma aveva interrotto
queste esercitazioni poetiche prima dei diciassette anni. Durante la nostra conversazione egli
scherzò spesso, mantenendosi sempre allegro, gentile e attento. Quando
mi congedai, dopo due ore, mi strinse la mano, chiese dove abitassi
e disse che sarebbe venuto da me; ma lo pregai di non disturbarsi, che
sarei stato felice se mi avesse concesso di ritornare ad ossequiarlo.
Mi rispose che mi avrebbe accolto sempre con piacere in qualsiasi momento
lo desiderassi. Egli chiese delle candele, poiché – disse – era
così buio che le nostre parole non avrebbero potuto giungere a destinazione.
Rivolgendosi in tedesco alla sua domestica chiese ein
Licht; alle mie domande se
avesse avuto la pazienza di imparare questa lingua, rispose: “Poche parole
per sopravvivere”, intendendo con ciò le cose indispensabili per non morire
di fame. Lord Stormont ci disse che al mattino era giunta la notizia di una rivoluzione in Svezia,
fornendo così lo spunto per una conversazione di carattere politico, che
io avrei volentieri evitato. “< Ecco
> – dice Metastasio rivolgendosi
a me – < un’altra scena per la drama! >”. Egli
osservò che gli interessi umani erano così vari
e così opposti, e persino le idee di un singolo uomo erano così di frequente
in contrasto tra loro, che era comprensibile che nel mondo accadessero
questi improvvisi eventi, sorprendenti solo per coloro che non si rendono
conto come la mente dell’uomo sia un garbuglio di capricci contraddittori. [...] mi recai
da Metastasio per l’ultima volta! Lo trovai in numerosa compagnia: Il caro vecchio poeta mi abbracciò affettuosamente:
disse che gli rincresceva di vedermi partire così presto, che desiderava
di avere il mio libro non appena fosse stato
pubblicato, e che voleva avere mie notizie. Così ci separammo a Vienna, ma non posso chiudere questo capitolo,
anche se è già abbastanza lungo, senza aggiungere ancora qualcosa di lui.
Mi era stato detto –
e tale era anche l’opinione del signor Hasse
– che i testi poetici manoscritti del Metastasio ancora
in suo possesso fossero più numerosi di quelli già pubblicati; Lord Stormont ne è invece poco convinto ricordando che per principio
Metastasio non scrive se non quando ne è richiesto, e quindi non compone
versi al solo scopo di chiuderli a chiave in un cassetto. Metastasio non crede all’ispirazione poetica
e può comporre un poema a freddo come un altro fabbricherebbe
un orologio, in qualsiasi momento gli aggrada senz’altra sollecitazione
che la sua volontà. Lord Stormont dice però
di aver letto una traduzione di Metastasio dell’Ars Poetica
di Orazio in versi italiani, e di averla giudicata superiore a tutte le
altre traduzioni in altre lingue. Dello stesso poeta, Metastasio tradusse
in modo ammirevole Hoc erat in votis; e qui ha narrato la storia del topo di città
e del topo di campagna con la stessa serietà del testo oraziano,
riuscendo più aderente alla lettera, allo spirito dell’originale di quanto
non lo siano stati tutti coloro che l’hanno preceduto
in questo tentativo.
Egli è per natura incline alla gaiezza ed allo scherzo
e sa diffondere l’allegria intorno a sé con i suoi modi e la sua conversazione; ha il dono dell’eloquenza sia nella conversazione
sia negli scritti. È uno dei pochi
geni eccezionali che non si appagano né dell’approssimazione é delle conoscenze
di seconda mano; ed è triste dover constatare che esistono pochissime
persone che al pari di lui meritino di essere
definite buone e grandi.
L’aneddoto che riferisco mi è stato raccontato da una
persona degna di fede e bene informata su ogni particolare che riguarda
questo grande poeta. Parecchi anni or sono Metastasio
era tutt’altro che ricco, ed era conosciuto
a Vienna soltanto come aiuto librettista di Apostolo
Zeno all’Opera. Una persona con cui aveva stretto una grande ed intima
amicizia gli aveva lasciato morendo tutta la sua fortuna,
cioè quindicimila sterline. Quando però Metastasio seppe che vivevano
a Bologna dei parenti dell’amico morto, vi si
recò per cercarli; trovatili, ritenendo che
avessero più diritto di lui a questo possesso, disse loro che l’intera
sostanza lasciatagli dal suo amico era semplicemente in sua custodia finché
non avesse potuto dividerla equamente tra i suoi parenti più meritevoli.
E così fece immediatamente senza serbare nulla per sé.
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G. F. HAENDEL, Concerto in SOL maj op. VI n°1 - A tempo giusto e Allegro