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La
collaborazione di Farinelli con Niccolò Porpora, intensa tra il
1722 e il 1724 - tra Roma e Napoli - va rarefacendosi, probabilmente per
l’impiego, in qualche modo doveroso da parte del compositore, degli
altri sopranisti della sua scuola: il Caffarelli soprattutto, il Salimbeni
e l’Appiani, ma anche di Giovanni Carestini, non formatosi direttamente
con il musicista dell’Angelica, ma da
questi preferito nel metastasiano Siface (Venezia,
1726); mentre per Didone abbandonata (Reggio
Emilia, 1725), ad affiancare Marianna Benti Bulgarelli, la diletta “Romanina”
del Metastasio nella stagione italiana, Porpora chiama Nicola Grimaldi,
e fa debuttare anche Domenico Gizzi nella parte di Araspe.
 
 
Del
resto anche la collaborazione ai libretti di Metastasio vede ormai il
ruolo preminente di un altro compositore napoletano, Leo Vinci, che, tra
il 1728 e il 1730, a Roma, al teatro delle Dame, l’ex-Alibert, garantisce
alla proprietà, insieme al poeta e alla “Romanina”,
un impresariato artistico di grande fascino e successo sul pubblico.
Si deve aspettare il carnevale del 1729 per assistere nuovamente ad un’interpretazione
di Farinelli, stavolta nella parte di Arbace, in un dramma di Metastasio,
Catone in Utica, messo in scena al Teatro Grimani
di S. Giovanni Grisostomo, a Venezia, con le musiche di Leonardo Leo,
un anno dopo la prima rappresentazione nel carnevale del 1728, non proprio
fortunata, a Roma al teatro delle Dame, messa in musica da Leo Vinci.
Sempre nel carnevale del 1729, a Venezia nello stesso S. Giovanni Grisostomo,
Pietro Metastasio con la sua Semiramide riconosciuta
– (l’opera sta per essere messa in scena al romano teatro
delle Dame, ma l’astuto impresario Domenico Lalli batte tutti sul
tempo) – favorisce il nuovo incontro di Farinelli, nella parte di
Mirteo, con la musica di Niccolò Porpora, incaricato dai Grimani
di intonare il dramma.
Peraltro, gli anni compresi tra il 1726 e il 1729 sono assai densi di
impegni per il sopranista, che, oltre a calcare le scene dei teatri italiani,
da Parma a Milano, da Roma a Bologna (qui Carlo Broschi entra in singolare
tenzone canora con il famoso e più anziano castrato Antonio Maria
Bernacchi, non riuscendo nell’occasione a dimostrare ai bolognesi
la sua superiorità canora e virtuosistica, ma conquistandosi l’amicizia
del più esperto ed espressivo rivale), da Firenze a Venezia, si
spinge nuovamente nel 1728 oltr’Alpe, alla corte di Monaco ed anche
presso quella di Vienna, dove peraltro, per esibirsi in un Concerto, nel
1724 è già stato invitato da Pio di Savoia, direttore del
teatro imperiale. Tutta la fase giovanile
italiana di Carlo Broschi Farinelli è improntata, come abbiamo
già intuito nel giudizio di Johann Joachim Quantz, a seguire la
moda allora dominante di un virtuosismo belcantistico quasi affatto esasperato
nei castrati, cercando comunque di conseguire la supremazia di genere,
grazie alle doti naturali e a uno studio rigoroso ed esemplare della messa
in voce.
La
testimonianza settecentesca di Giovenale Sacchi, biografo del Farinelli,
insieme al già citato Quantz e più tardi a Giovanbattista
Martini e a Charles Burney, può aiutarci a comprendere le fasi
del progressivo cambiamento nel sopranista non solo dello stile del suo
canto ma anche dell’intera impostazione artistica e culturale fin’allora
seguita.
Egli studiava, come tutti
i musici fanno, di eccitar meraviglia, e di porger diletto al senso
materiale dell'udito più che all'animo; cercava il difficile
più che il bello, e amava di far ostentazione della voce, e dell'arte.
L'amica fortuna il condusse in parte dove avesse occasione di conoscere
ancor questo errore da pochissimi conosciuto, e di spogliarsene.
Dunque, fino alla permanenza
in Italia – insieme ai Concerti-esibizione eseguiti a Monaco e a
Vienna – si può dire che il giovane allievo del Porpora,
aderisca perfettamente al ruolo conquistato sul campo che fa ormai di
lui, in ogni teatro italiano, un prodigioso esponente, forse il migliore,
della generazione dei cantanti evirati, quasi appagato, sembrerebbe, ripetendo
i giudizi di Giovenale Sacchi, di raggiungere il successo presso ogni
pubblico con
[…] eccitar meraviglia […] porger
diletto al senso materiale dell’udito più che all’animo,
[cercare] il difficile più che il bello, e […] far ostentazione
della voce e dell’arte.
Tra il 1729 e il 1732
Farinelli espande e consolida la sua fama di assoluto padrone delle scene
del canto italiano – quello per il quale, per intendersi con chiarezza,
le arie di “baule” del sopranista, “primo uomo”,
hanno il sopravvento su qualsiasi richiesta di impresario, anche il più
blasonato, anche il più rispettoso del testo poetico e della partitura
musicale, pur di affermare la funzione imprescindibile dell’interpretazione
virtuosistica del cantante su tutte e ciascuna componente artistica dell’opera
in musica.
L’incontro a Vienna di Farinelli con l’imperatore Carlo VI
nel 1732 chiude la lunga fase – ormai il sopranista è sulla
scena da più di dieci anni, e nonostante la giovane età,
27 primavere, si può considerare per successo, affermazioni e fama
conseguite, un veterano – del riconoscimento del pubblico ruolo
come cantante tra i più richiesti nel teatro dell’opera italiana.
 
 
 
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