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Certamente la sapiente regia organizzativa
tessuta per il Concerto inaugurante la stagione 2008-2009 da Marcello Panni,
direttore artistico dell’Accademia Filarmonica Romana, ha sfruttato
opportunamente il richiamo sul pubblico romano del già conosciuto:
l’aspettativa delle musiche di Antonio Vivaldi per questa Serenata a tre,
la direzione di Renè Clemencic, figura storica tra le più famose ed
apprezzate nel corso del Novecento come interprete della musica barocca,
alla guida, dal clavicembalo, del Clemencic Consort; l’allestimento della
grande scenografa napoletana Isabella Ducrot nel simulare la
rappresentazione semi-scenica, mediante un fondale a tutto palcoscenico da
essa stessa ex novo dipinto in chiave modernisant, come una sorta di
patchwork allusivo, nei toni coloristici rosso fuoco, alle passioni
evocate e/o controllate dalla temperie tonale propria delle atmosfere
arcadiche, tipiche forme espressive dei primi anni Venti del Settecento, per
ultimo i lucidi accesi costumi a sacco indossati dai cantanti, ideati da
Veronica Della Porta, a fissare caratteri e sentimenti messi in scena dai
personaggi con la poesia di ignoto musicata da Antonio Vivaldi, tutto ciò ha
rappresentato un impegno artistico non indifferente né usuale.
Insomma, la scommessa di dare inizio alla
stagione lirico-sinfonica 2008-2009 della gloriosa istituzione musicale
romana con la Serenata a tre di Antonio Vivaldi confortata da una
sala piena di pubblico in ogni ordine di posti, sembrava vinta, come si
dice, a mani basse. |
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Se non fosse stato un eccessivo rallentamento
dei tempi esecutivo-orchestrali tanto diluiti da Renè Clemencic da
trasformare i classici e tipici accordi “in levare” di Vivaldi in
altrettanti improbabili calando – in particolare nelle arie della
prima parte del Concerto – si potrebbe dire che anche la rara composizione
del prete rosso avrebbe potuto a buon diritto aspirare ad entrare nel già
ampio repertorio delle odierne esecuzioni delle sue musiche. Ma oltre al non trascurabile limite relativo
ai tempi dettati dal direttore del Clemencic Consort, occorre considerare la
conseguente perdita di ritmo e di coesione scenico-musicale tra le parti
della Serenata, non surrogata, purtroppo, dalla pur encomiabile
recitazione-declamazione a memoria del testo da parte dei cantanti, peraltro
riuscita come prova di canto soprattutto con l’interpretazione di Laura
Cherici, che, nella parte di Eurilla, la protagonista effettiva della
Serenata, ha potuto dare colore e vigore drammatico al ruolo affidatole.
È
venuta così emergendo la necessità che
si sarebbe dovuto fare ricorso anche per questa esecuzione semi-scenica, in
mancanza di un’unitaria ed unificante direzione orchestrale dell’integrale
Serenata, ad un’attenta vera e propria regia teatrale capace di
indirizzare l’attenzione degli interpreti a quelle interazioni drammatiche
sulla scena a loro volta in grado di esaltare le invenzioni melodiche ed
armoniche di Antonio Vivaldi. Ci si riferisce in particolare all’ambigua
connotazione assunta dal senso della “libertà” nell’aria di Alcindo con cui
il personaggio sembra volersi difendere dall’esondante e prepotente
dichiarazione amorosa di Eurilla. La stessa conclusione di Eurilla in
chiusura della Serenata evocante la terrificante punizione per chi si
rifiuta al suo amore: «Olà, Ninfe, Pastori: nell’amorosa Caccia/ Colsi la
Fiera, onde co’ schermi vostri/ Ad isbranarle il cuor pronti vi chiamo./
Contro un altero un gran rigore io bramo.», risulta in questa esecuzione
semi-scenica praticamente incomprensibile, sia dal punto di vista teatrale
sia da quello dell’intonazione vivaldiana. Così come è risultato straniante
il Coro finale, rispetto all’interpretazione statica dell’insieme della
Serenata a tre, prima di esso quasi una lettura lontana nel tempo delle
sentimentali atmosfere arcadiche dalle quali l’esecuzione concertistica si è
come lasciata avvolgere ed irretire. Nel Coro finale, infatti, tutti e tre i
personaggi cantano versi non proprio rassicuranti, che anzi intendono
spiazzare e scuotere gli spettatori in attesa di un esito a lieto fine:
«Si punisca, si sbrani, s’uccida/ Il superbo
spietato suo cuor./ Delle ninfe nel sen non s’annida/ Mai pietà con chi
vanta rigor.»
Se
è vero come è vero, infatti, che, secondo la lettura storico-critica di
Michael Talbot, la Serenata di Vivaldi intendeva invece celebrare,
servendosi dello schermo di un’innocua favola pastoral-arcadica, una sorta
di severo ammonimento, a futura memoria, nei riguardi di tutti i seguaci del
giansenismo, rei di arrogarsi il diritto di riservare a se stessi la libertà
di scegliere il proprio percorso nella ricerca della Fede cattolica, si può
dire che la drammaticità di tale assunto teatrale-musicale con l’esecuzione
del Clemencic si sia dispersa nella faticosa, lenta, meccanica e ripetitiva
accumulazione di interminabili “da capo” musicali e nella giustapposizione
dei recitativi alle arie.
In definitiva, il Clemencic Consort, il suo
direttore, e, dobbiamo purtroppo osservare, lo stesso direttore artistico
dell’Accademia Filarmonica Romana, non si sono chiesti come rendere
comprensibile in scena la tesi storiografica, capace di individuare nella
Serenata vivaldiana una vera e propria deriva post-controriformistica, che
Michael Talbot, in modo esemplare, assunse come senso e significato
emblematici di questa composizione del prete rosso, maturata, forse, nel
corso della sua esperienza alla corte di Mantova (1718-1720): l’unica vera
libertà è nell’abbracciare usque ad mortem, appunto, l’insegnamento e
la dottrina della Fede, impartite a Roma da Santa Madre Chiesa, sostenute
con il consueto vigore e rigore dall’ordine gesuita, peraltro tenuto in gran
conto quest’ultimo da Clemente XI, papa Albani, come antemurale di fronte ad
ogni cedimento teologico-religioso. La stretta interdipendenza tra la
cultura letterario-musicale promossa dall’Accademia dell’Arcadia, da una
parte, l’adesione di questa alla guida dottrinaria della Compagnia di Gesù,
e la composizione musicale offerta al testo da parte di Antonio Vivaldi,
mediante tutte le sue lussureggianti ambiguità tonali, dall’altra, ambiguità
appena intraviste ed accennate sotto la direzione di Renè Clemencic, si sono
come perse nel faticoso inseguirsi di invocazioni amorose,
pastoral-arcadiche, agli occhi e alle orecchie del pubblico presente al
Teatro Olimpico, riteniamo – per dirla con una nota icastica espressione
proverbiale inglese - del tutto non sensical.
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Forse si è ancora una volta inteso dimostrare
che la musica di Antonio Vivaldi è la musica di Antonio Vivaldi, come a dire
che basta a se stessa e a tutti i suoi ammiratori, volendo ignorare, come
spesso accade per una nozione e ricezione estetizzanti, a buon mercato,
della cosiddetta musica antica, i precisi rinvii dei testi poetico-musicali
richiesti dal committente dell’epoca all’autore della composizione affinchè
lettera e senso della stessa arrivassero ai destinatari prescelti. A margine
e completamento delle notazioni storiografiche di Michael Talbot, possiamo
aggiungere che Antonio Vivaldi, forse anche grazie all’intemerata
anti-giansenista espressa nella Serenata a tre, subito dopo, dal 1722
al 1724, si guadagnava, dominandolo per un triennio, il palcoscenico del
Teatro Capranica a Roma, invitato proprio dal cardinale Pietro Ottoboni, il
protettore dell’Accademia dell’Arcadia, dove il musicista avrebbe fatto
mettere in scena con enorme successo, nel 1723 il dramma Ercole sul
Termodonte, e nel carnevale del 1724 ben 2 opere serie: Giustino,
libretto di Pietro Pariati, modificato da Nicolò Berengani, e l’emblematica
La virtù trionfante dell’amore e dell’odio, overo il Tigrane,
su libretto di Francesco Silvani.
Così al prete rosso, dopo avere servito a
Mantova Filippo di Assia-Darmstadt, governatore della città per conto degli
Asburgo, arrivava l’incarico di rappresentare nei drammi per musica del
periodo romano, la prospettiva di una riconciliazione tra la cattolicissima
Vienna e i papi Innocenzo XIII e Benedetto XIII, succeduti al filo-borbonico
e filo-gesuita Clemente XI, ma non per questo meno intransigenti dell’Albani
nei confronti dei seguaci del giansenismo.
Forse sarà chiedere troppo ai moderni
interpreti ed organizzatori di esecuzioni delle musiche vivaldiane
contestualizzare storicamente origine, committenza e occasioni delle
intonazioni, soprattutto, dei testi poetici, ma conserviamo la speranza che
un giorno non lontano si possano giovare tutti – esecutori, interpreti e
pubblico soprattutto – della ricostruzione di ciò che Giuseppe Sinopoli
definiva l’ante-testo di ogni grande musica composta nel XVIII
secolo. Il direttore d’orchestra si riferiva in particolare a W.A. Mozart,
del quale egli si riprometteva di eseguire le opere non prima però di averne
studiato e compreso tutte le condizioni storico-culturali che ne avevano
consentito la composizione e la rappresentazione.
Riteniamo che tale metodo sia proficuamente
da estendere ad ogni esecuzione ai nostri giorni del teatro musicale del
XVIII secolo.
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