Sul Demofoonte (Metastasio-Jommelli)
Ravenna, Luglio 2009, direttore Riccardo Muti
Demofoonte, Edizione critica della partitura
a cura di Tarcisio Balbo, Ut
Orpheus Edizioni
Bologna, 2009, pp. LXXVII + 319, € 160,00
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È noto ed apprezzato da tutto il mondo musicale, italiano ed internazionale, il grande impegno di Riccardo Muti per il pieno recupero e la completa valorizzazione dei compositori della “Scuola napoletana” del XVIII secolo. Alla testa della giovane orchestra “Cherubini”, da lui stesso guidata e formata, Muti si sta dedicando ormai da alcuni anni a restituire a musicisti come Paisiello, Cimarosa, Alessandro Scarlatti, Niccolò Jommelli, solo per fare alcuni esempi di musicisti napoletani dei quali il Maestro ha recentemente eseguito le partiture, il posto d’onore che loro spetta quali maestri ed ispiratori di correnti e stili musicali dell’Europa del tempo che daranno un importante se non decisivo contributo, negli ultimi decenni del Settecento, alla piena affermazione della “Wiener Klassik”.
Reduce perciò dal grande successo a Salisburgo dove nel Maggio di quest’anno ha diretto il melodramma Demofoonte di Pietro Metastasio (Vienna, 1733) con le musiche di Niccolò Jommelli, rinnovate per la quarta volta dall’aversano su questo libretto del Poeta Cesareo per ottemperare alla richiesta di Ferdinando IV, re di Napoli, e celebrare il 4 Novembre del 1770 al Teatro di San Carlo, il nome del padre, l’augusto sovrano di Spagna, Riccardo Muti ha impegnato nuovamente al Festival di Ravenna, nella prima decade del Luglio di quest’anno, la sua orchestra con questo Demofoonte, non prima di avere corrisposto alla co-produzione con l’Opéra Garnier recando anche a Parigi il 21 Giugno il dramma intonato da Niccolò Jommelli. |
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A questo sforzo non indifferente sia sul piano artistico sia su quello organizzativo, nient’affatto secondario, va aggiunto un altro elemento di rilevante merito per Riccardo Muti: l’avere fatto accompagnare la sua esecuzione del Demofoonte a Salisburgo, Parigi e a Ravenna da un’edizione critica della partitura e del libretto relativi alla prima del 4 Novembre 1770 al Teatro di San Carlo di Napoli. Curata da Tarcisio Balbo per i tipi della casa editrice Ut Orpheus di Bologna che ha già in programma di assecondare nel prossimo futuro altre importanti iniziative del M° Muti riguardo alla Scuola napoletana, l’edizione critica del Demofoonte presenta, in una veste grafica e tipografica molto accurata, caratteristiche testuali forse soverchiamente segnate dalla personalità di un grande interprete della musica come in effetti è Riccardo Muti. Non si intende con ciò dire che Muti abbia responsabilità alcuna nelle scelte effettuate dal curatore nel comporre la pubblicazione; ma certamente è sorprendente che Tarcisio Balbo nella sua introduzione non abbia quanto meno dato neppure un cenno di risposta alla domanda fondamentale: perché Jommelli arrivò alla quarta intonazione del libretto di Metastasio? Il curatore, infatti, dopo avere dato riscontro alle 3 intonazioni precedenti: Padova, Teatro Obizzi, 1743; Milano, Teatro Regio Ducale, 1753; Stoccarda, Teatro Ducale, 1764, e Ludwigsburg , Palazzo Ducale, 1765 (quest’ultima partitura revisione di quella eseguita l’anno prima a Stoccarda), passa decisamente a cercare di dirimere le mille questioni riguardanti la quarta intonazione del 1770, tutte derivanti dalla sfortunata assenza di partiture autografe e per di più potendo accedere soltanto a copie manoscritte talora incomplete, con interventi arbitrari degli stessi copisti, e addirittura contenenti, limitatamente al terzo atto del Demofoonte, non già la musica di Jommelli bensì un pasticcio attribuito a Leonardo Leo il quale avrebbe chiamato altri tre colleghi, il Sarro, il Mancini e il Sellitti a mettere in musica, insieme a lui, il dramma di Metastasio nel 1735 a Napoli (cfr. partitura I-Nc 28.5.1-2 in Apparato critico, p. 308 e 313 e sgg.: Napoli e l’Europa/ Vol. I/ Capolavori della Scuola Napoletana scelti da Riccardo Muti/ Niccolò Jommelli/ Demofoonte/ Napoli 1770, Ut Orpheus Edizioni, Bologna, 2009). Orbene, se lo stato attuale della padronanza dei testi musicali autentici di Niccolò Jommelli, la cui sfortuna testuale sembra dipendere dal gran dispitto subito dal compositore ad opera del duca Carl Eugen del Württenberg il quale non permise allo Jommelli di tornare a Napoli alla fine degli anni Sessanta non solo con la pensione promessa ma neppure con le partiture da lui composte, tutte requisite dal feudatario, occorre chiedersi se da questa causa derivi la mancata risposta ad un confronto anche sommario delle tre intonazioni del Demofoonte, precedenti quella di Napoli, confronto che avrebbe consentito di capire le ragioni artistico-culturali e storiche di un tale “accanimento” da parte dell’aversano nel mettere in musica ben quattro volte il dramma di Pietro Metastasio. Ancora e più semplicemente, saremmo stati grati al curatore se egli ci avesse esplicitamente informato nella sua edizione critica che la quarta composizione musicale del Demofoonte nel 1770 dipese esclusivamente e senza dubbio alcuno dalla perdita subita da Jommelli delle sue precedenti tre versioni, rimaste nelle mani del vendicativo duca Carl Eugen (insieme a tantissime altre partiture); da qui sarebbe derivata la scelta di Riccardo Muti e di Tarcisio Balbo di ricomporre esclusivamente le peraltro sempre e comunque disiecta membra del Demofoonte napoletano, quarta intonazione di Jommelli? Questa piccola, semplice e fondamentale notazione manca nella prefazione di Tarcisio Balbo, nel suo Apparato critico e nei Criteri di Edizione, curatore il quale, peraltro, lasciando al lettore attento, culturalmente sensibile e provveduto, ogni deduzione…e perplessità a riguardo, si diffonde nel disseminare dubbi e interrogativi senza soluzione circa le copie…dei copisti da lui collazionate per l’edizione critica del Demofoonte napoletano, riuscendo soltanto nella tavola comparativa conclusiva a farci capire che la copia princeps sulla quale egli si è deciso a lavorare perché ritenuta affidabile e completa, per fornire al M° Riccardo Muti l’opportunità della certa esecuzione di tutti e tre gli atti del Demofoonte con le musiche di Jommelli, è quella posseduta in Portogallo dalla Biblioteca dell’Ajuda, manoscritto P-La Cód. Mús. 44.X.3-5, dovuta alla fortunata committenza nel 1771 del direttore dei teatri reali portoghesi João Pinto da Silva a Niccolò Piaggio, agente generale della corona portoghese, da quest’ultimo fatta copiare a Napoli con cura particolare…da tre diversi copisti. Insomma, ed in conclusione, l’edizione critica del Demofoonte che ha accompagnato le magistrali esecuzioni di Riccardo Muti ha il pregio di manifestare e dichiarare, apertis verbis, le insormontabili difficoltà che oggi si avvertono da parte di chiunque, musicista e/o musicologo, voglia riproporre l’esecuzione dell’autentica musica di Niccolò Jommelli. Ma se lo status quaestionis della fedeltà ed affidabilità delle musiche composte dall’aversano, così come esse ci sono arrivate, rivela ancora tante incongruenze e dubbi perché non ci si è limitati per Demofoonte ad una trascrizione e alla revisione della fonte portoghese, ritenuta la copia primaria, nonchè completa?
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Perché non si è inteso a fortiori, viste le incongruenze riscontrate nelle copie Noseda, Sigismondo e San Martino, esaminare e confrontare le tre versioni precedenti fornite da Jommelli al dramma di Metastasio? Forse si è voluto preferire per mere ragioni di “napoletanità” la versione del 1770, come se lo stile di Jommelli a contatto con la sua Napoli dovesse nuovamente scoprire l’originaria ispirazione, prima della partenza e della permanenza ventennale a Ludwigsburg? Eppoi, le stesse citazioni dell’ammirazione di Charles Burney nei confronti dell’aversano ne Il viaggio in Italia, nella grande Storia della musica sono risultate “tagliate” su misura per costruire una sorta di postumo mito di un grande compositore al termine della carriera e della sua stessa vita. In questo senso è sufficiente confrontare la traduzione integrale di Enrico Fubini con i passi scelti e “tagliati”, citati tanto in questa edizione critica quanto in ogni comunicato stampa per la presentazione del Demofoonte, per riscontrare che oltre ai dubbi testuali sulla partitura si possono avvertire quelli derivanti da una certa manipolazione della storiografia musicale settecentesca, sempre peraltro favorevole, con il Burney, alla tradizione del teatro musicale italiano. Infine, come non rammaricarci che in questa edizione critica, così ben curata dalla Ut Orpheus, manchino del tutto pur anco sintetiche note biografiche di Pietro Metastasio, il poeta così amato dal suo Jomella, come sono assenti anche quelle dello stesso Jommelli in relazione soprattutto ad altre plurime versioni di altri drammi del Poeta Cesareo. Forse il rilevante impegno artistico e culturale offerto da Riccardo Muti al revival da lui intrapreso riguardo alla “Scuola Napoletana” ha fatto aggio di per sé, come a dire in favore delle esclusive ragioni dei grandi interpreti della musica, come se la grande valentia nella concertazione e direzione di uno dei nostri più acclamati interpreti d’oggi, possa garantire la più efficace, fedele trasmissione comunicativa dell’intonazione settecentesca, tanto da imporla, sic et simpliciter, nell’agone del teatro lirico-sinfonico dei nostri giorni?
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L’esecuzione ravennate del Demofoonte, diretto dal M° Riccardo Muti, ha pagato il debito che pagano tutti coloro, anche i più illustri direttori d’orchestra, i quali si rivolgono alla drammaturgia di Metastasio con l’idea che la musica – in questo caso di Jommelli, precursore della “Wiener Klassik” –, è in grado di riscattare ogni stasi dell’azione scenica, attribuibile, purtroppo, esclusivamente al librettista, quel Pietro Metastasio, appunto, Poeta di corte, costretto a rendere sublimi ed altisonanti oscure ed intricate storie sentimentali, a motivo della sua funzione di impiegato dell’imperatore Asburgo. Purtroppo, non ci si rende ancora conto che il teatro musicale di Pietro Metastasio è un teatro di parola con accompagnamento musicale e che il presunto e presuntuoso modo di leggerlo oggi da parte di tanti registi dell’odierno teatro musicale, che, ignorando del tutto la copiosa storiografia letteraria pubblicata sul protagonista assoluto del melodramma settecentesco, si interstardiscono invano ad assecondare unicamente le idee musicali del direttore dell’orchestra, specialmente quando questi è Riccardo Muti perché esse idee e non anche insieme il testo letterario possano dare piena espressione alla forma poetica ed artistica racchiuse pressoché esclusivamente nelle note musicali, ebbene questa sì presunta filosofia dell’ignoranza praticata dai registi attuali finisce per svilire, soprattutto agli occhi ed orecchie del pubblico, la generosa ed importante missione di recuperare e valorizzare le opere del teatro musicale del XVIII secolo. Si intende da una parte osservare che anche i giovani interpreti del Demofoonte diretto da Riccardo Muti sono incorsi nella trappola di una dizione e declamazione appena valide per un’interpretazione di opere ottocentesche, cioè già note e digerite dal pubblico dei melomani, mentre dall’altra proprio questa insufficiente capacità di mettere in voce la chiarezza espressiva e comunicativa del testo metastasiano, ha finito per suscitare non solo incomprensione, alla lettera, sia del testo musicale che, ancor di più, di quello poetico, ma addirittura estraneità. Una breve considerazione sul valore comunicativo-artistico del Demofoonte del 1733 sarà forse sufficiente per suggerire e richiedere studi pre-testuali più appropriati, in futuro, prima di mettere in scena un melodramma di Pietro Metastasio con le musiche di un compositore come Jommelli. Il Poeta Cesareo, chiamato con totale convincimento da Carlo VI a rivestire tale ruolo a Vienna nel 1730, si assunse il compito non solo di illustrare l’universalismo politico degli Asburgo nell’Europa del XVIII secolo, ma ebbe mano libera con il suo teatro delle virtù-valori per favorire un processo di incivilimento generale dei sudditi del Cesare germanico, nonché, al tempo stesso, dello stesso metodo di governo della dinastia imperiale. Questo teatro pedagogico – si tratta della pedagogia del potere – aveva lo scopo di allontanare per sempre dall’orizzonte delle passioni umane i meccanismi della vendetta, dell’orrore e della violenza più efferata, sia dall’orizzonte cosiddetto legittimo dei poteri tardo-feudali, sia da quello prodotto all’interno delle relazioni sociali dei comuni mortali. L’antica storia di Demofoonte, re di Tracia, che nel solco di una tradizione barbara e primitivistica pretende che una vergine venga periodicamente immolata sull’altare della Ragion di Stato, risponde, con il lieto fine escogitato da Metastasio, alla necessità di abbandonare per sempre il Timor Fati a favore proprio di quelle usanze civili, di rispetto della vita e della felicità degli esseri umani, come valori universali a cui tutti si devono attenere, re e sudditi. La figura di Demofoonte nel testo drammatico di Metastasio ha un ruolo fondamentale, come anche nell’intonazione di Niccolò Jommelli. Non ci sembra che la rappresentazione guidata dal M° Riccardo Muti abbia saputo e potuto conferire tale rilevanza al personaggio, che nella lettura registica viene scolpito come individuo pronto a concedere ascolto, approvazione e a cedere di fronte alla volontà di tutti coloro che gli si rivolgono per il solo fatto che manifestino sentimenti veraci.
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Inoltre, the last but not the least, il personaggio di Demofoonte, nell’invenzione poetica di Metastasio e nei suoi rinvii alle condizioni politiche di Vienna, era figura dell’imperatore Carlo VI, tormentato dall’obbligo politico di salvaguardare alla figlia Maria Teresa e alla Casa d’Austria la trasmissione del potere alla testa del Sacro Romano Impero Germanico, ma non disponibile, per attuare questo scopo, a negare le ragioni del cuore dei suoi figli. Dircea e Timante, quindi, nel Demofoonte erano prefigurazioni di personaggi ben reali come Maria Teresa e Francesco Stefano di Lorena, i cui sponsali vennero celebrati nel 1736 per rinnovare, pur contrastati da guerre e forze “oscure”, il dominio degli Asburgo sull’Europa e sul mondo d’allora. Cade a proposito ricordare e citare, quanto ai rapporti tra poesia e musica nell’opera del Settecento, quanto Metastasio scriveva a Francesco Giovanni di Chastellux, accademico di Francia, il 15 luglio 1765: «Quando la musica, riveritissimo signor cavaliere, aspira nel dramma alle prime parti in concorso della poesia, distrugge questa e se stessa. […] I miei drammi in tutta l’Italia, per quotidiana esperienza, sono di gran lunga più sicuri del pubblico favore recitati da’ comici che cantati da’ musici, prova alla quale non so se potessi esporsi la più eletta musica d’un dramma, abbandonata dalle parole. Le arie chiamate di bravura, delle quali condanna ella da suo pari l’uso troppo frequente, sono appunto lo sforzo della nostra musica, che tenta sottrarsi all’impero della poesia. Non ha cura in tali arie né di caratteri, né di situazioni, né di affetti, né di senso, né di ragione; ed ostentando solo le sue proprie ricchezze col ministero di qualche gorga imitatrice de’ violini e degli usignuoli, ha cagionato quel diletto che nasce dalla sola meraviglia, ed ha riscossi gli applausi che non possono a buona equità esser negati a qualunque ballerino di corda, quando giunga con la destrezza a superar la comune aspettazione. Superba la moderna musica di tal fortuna, si è arditamente ribellata dalla poesia, ha neglette tutte le vere espressioni, ha trattate le parole come un fondo servile obbligato a prestarsi, a dispetto del senso comune, a qualunque suo stravagante capriccio, non ha fatto più risuonare il teatro che di coteste sue arie di bravura. […] In fine è ormai pervenuto questo inconveniente a così intollerabile eccesso, che o converrà che ben presto cotesta serva fuggitiva si sottoponga di bel nuovo a quella regolatrice che sa renderla così bella, o che, separandosi affatto la musica dalla drammatica poesia, si contenti quest’ultima della propria interna melodia, […] e che vada l’altra a metter d’accordo le varie voci d’un coro, a regolar l’armonia d’un concerto, o a secondar i passi d’un ballo, ma senza impacciarsi più de’ coturni.» (Pietro Metastasio, Tutte le Opere, a cura di Bruno Brunelli, Milano, Mondadori, 1943-1954, 5 Voll., Vol. IV, pp. 398-399)
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La lucida e spietata analisi del belcantismo, qui enunciata da Pietro Metastasio, a dispetto di ogni facile ipotesi di ritenere il Poeta Cesareo il principale complice del “deprecato” fenomeno artistico, potrebbe ancora oggi essere sottoscritta da chiunque intenda rimettere con i piedi per terra una corretta e fedele a tutti i testi rievocazione e interpretazione della drammaturgia metastasiana, tanto da rendere possibile ai migliori il compito di rappresentare fedelmente l’unità di poesia e musica così come questa venne costruita appunto e in primo luogo dallo stesso Metastasio. La consapevolezza di tale mirabile equilibrio raggiunto nel teatro musicale del Settecento tra poesia e musica, sempre però da migliorare e perfezionare, potrebbe essere stata la vera ragione delle molteplici versioni a cui Jommelli sottopose diversi drammi del Poeta Cesareo, dall’Ezio alla Semiramide, dal Demofoonte all’Artaserse, dal Ciro riconosciuto a Didone abbandonata. Del resto, forse proprio un’altra lettera di Pietro Metastasio allo Chastellux, il 29 Gennaio del 1766, può farci capire ancora più chiaramente non solo i dubbi che arrovellavano compositori e “librettisti”, in quella seconda parte del XVIII secolo, a riguardo dell’equilibrio artistico-comunicativo tra poesia e musica, quanto suggerire se non addirittura stabilire punti fermi e criteri vincolanti per la lettura e l’interpretazione attuale della drammaturgia di Pietro Metastasio e dei musicisti che la intonarono: |
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«Conveniamo dunque perfettamente tra noi che sia la musica un’arte ingegnosa, mirabile, dilettevole, incantatrice, capace di produrre da sé sola portenti, ed abile, quando voglia accompagnarsi con la poesia e far buon uso delle sue immense ricchezze, non solo di secondare ed esprimere con le sue imitazioni, ma d’illuminare ed accrescere tutte le alterazioni del cuore umano. Ma non possiamo non confessare concordemente nel tempo stesso l’enorme abuso che fanno per lo più a’ giorni nostri di così bell’arte gli artisti, impiegando a caso le seduttrici facoltà di questa, fuor di luogo e di tempo, a dispetto del senso comune, ed imitando bene spesso il frastuono delle tempeste, quando converrebbe esprimere la tranquillità della calma, o la sfrenata allegrezza delle Bassaridi in vece del profondo dolore delle Schiave troiane o delle Supplici argive; onde il confuso spettatore spinto nel tempo stesso a passioni affatto contrarie dalla poesia e dalla musica, che in vece di secondarsi si distruggono a vicenda, non può determinarsi ad alcuna, ed è ridotto al solo meccanico piacere che nasce dall’armonica proporzione de’ suoni o dalla mirabile estensione ed agilità d’una voce. […] L’esecuzione d’un dramma è difficilissima impresa, nella quale concorrono tutte le belle arti, e queste, per assicurarne, quanto è possibile, il successo, convien che eleggano un dittatore. Aspira per avventura la musica a cotesta suprema magistratura? Abbiala in buon’ora, ma s’incarichi ella in tal caso della scelta del soggetto, dell’economia della favola; determini i personaggi da introdursi, i caratteri e le situazioni loro; immagini le decorazioni; inventi poi le sue cantilene, e commetta finalmente alla poesia di scrivere i suoi versi a seconda di quelle. E se ricusa di farlo perché di tante facoltà necessarie all’esecuzione d’un dramma non possiede che la sola scienza dei suoni, lasci la dittatura a chi le ha tutte, e […] confessi di non saper comandare, ed ubbidisca. […] Se in cotesto teatro lirico si rappresenta un’azione, se vi si annoda, se vi si scioglie una favola, se vi sono personaggi e caratteri, la musica è in casa altrui, e non vi può far da padrona» (Pietro Metastasio, Tutte le Opere, cit., vol. IV, pp.436-439) |
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In conclusione, riteniamo che per rilanciare la grandezza della tradizione musicale della “Scuola napoletana” nel XVIII secolo – intrapresa innovativa nel panorama e nel repertorio del teatro lirico odierno, evento che è grande titolo di merito di Riccardo Muti – occorra saper cogliere e interpretare la lezione poetica, estetica ed etico-politica di colui che in qualità di massimo ispiratore, e non già come mero librettista, di un così grande numero di intonazioni musicali per i compositori di questa stessa scuola e di altre fino alla tanto giustamente osannata “Wiener Klassik”, per il Demofoonte, così come per Artaserse, il dramma più messo in musica in tutta la storia del teatro d’opera del mondo occidentale, essendo riuscito Pietro Metastasio, al tempo stesso, a fissare e determinare uno stile e un linguaggio popolare per la forma dello spettacolo universale nella sua epoca. Roma, 27 Luglio 2009 Mario Valente |
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