In memoria di Giovanni
Morelli
il romanzo del critico dello studioso del
grande organizzatore di cultura
Il 12 o il 13 Luglio 2011
– non riesco più a ricordare la data esatta – su “Il
Corriere della Sera” leggevo negli annunci mortuari la
terribile notizia della scomparsa di Giovanni Morelli,
professore di Storia della musica a Venezia, Università
di Ca’ Foscari, studioso e intellettuale tra i più
stimati e conosciuti in Italia e nel mondo in quel campo
dell’arte tonale investigato a partire dal
Sei-Settecento sino al Novecento.
Giovanni aveva compiuto
69 anni essendo nato a Faenza il 14 maggio 1942.
Da quel giorno di Luglio
non ho più smesso di pensare all’amico conosciuto a
Venezia nel lontano giugno 1999 durante la prima di una
serie di eventi lirico-sinfonici e convegni, protrattisi
sino al 2005, per celebrare la figura e l’opera di
Pietro Metastasio, il quale proprio a Venezia negli anni
Venti del Settecento aveva ottenuto con il Siroe
la definitiva consacrazione quale protagonista assoluto
del melodramma, dopo il clamoroso successo dell’esordio
a Napoli nel 1724 con la Didone abbandonata,
successo rinnovato proprio a Venezia al teatro Ca’ Tron
di San Cassiano nel carnevale del 1725, grazie
all’interpretazione di Marianna Benti Bulgarelli, la
Romanina, e alle musiche di Tomaso Albinoni, nobile
veneziano e grande compositore. Venezia dunque era,
insieme a Napoli, Roma e Vienna una delle quattro tappe
fondamentali delle celebrazioni metastasiane, secondo il
percorso seguito dal maggiore autore del melodramma
nell’Europa del Settecento e che il Comitato Nazionale
sorto in suo onore volle rifare, aderendo così anche in
questo modo al progetto artistico-culturale di chi
scrive oggi questo ricordo dell’amico veneziano.
Nel 1998, l’anno della
ricorrenza del 3° Centenario della nascita di Pietro
Metastasio, Giovanni Morelli pubblicava nei saggi della
Marsilio editori, copy-right della Fondazione Giorgio
Cini di Venezia, il suo libro: Paradosso del
farmacista/Il Metastasio nella morsa del
tranquillante.
Credo che non vi sia modo
più adeguato per onorare la memoria di Giovanni Morelli
che provare a narrare, decifrare e chiosare questo suo
impegnativo scritto, nel quale il linguaggio della
critica letteraria, della musicologia, e dei saperi
medico-scientifici configurano, insieme, una narrazione
saggistica, ovvero un saggio in forma di intelletto
narrante.
Ne è venuto fuori un
libro che a distanza di ben tredici anni dalla
pubblicazione riveste un singolare e straordinario
interesse sia nel gurgite vasto della
recente produzione storiografica a riguardo del Poeta
Cesareo, idest in relazione al senso ed al
significato del recupero attuale del suo melodramma, sia
per quanto attiene al per null’affatto secondario
problema della dimensione epistemologica del lavoro
intellettuale nell’attuale fase della riproducibilità
tecnica dell’opera d’arte.
Se pensiamo, inoltre, al
Walter Benjamin di Angelus Novus, il libro di
Giovanni sollecita risposte inderogabili su quali
possano essere le rovine della tradizione e della storia
che il vento o altre forze ignote depositano dinanzi a
noi, non alle nostre spalle, per suscitare con le loro
lacere spoglie una richiesta di edificazione di nuove
forme.
Giovanni inizia la sua
récherche
metastasiana, a
fagiolo – (per usare
un’espressione tratta
dal linguaggio popolare-simil-proverbiale che egli
stesso prediligeva) –, mediante la definizione del
Pharmakós, centro focale dei ragionamenti e
narrazioni del suo libro, rievocando cioè la vicenda
della giovanetta Policrite di Nasso che, offerta dai
suoi concittadini alle bande di Ionii, precisamente
Erytrii e Milesii, che si apprestano a impadronirsi
dell’isola, a devastarla e a deportarne gli abitanti,
dopo averne uccisi una congrua parte, viene offerta alla
furia degli invasori, ignara della sua sorte,
abbandonata fuori delle mura della città-isola quale
vittima sacrificale.
Le
convenzioni/convinzioni mitiche e
storico-antropologiche, proprie delle antiche società
mediterranee e d’altre plaghe del mondo umano
pre-civilizzazione cristiana, ci invitano a ritenere –
sostiene Giovanni Morelli – che offrendo le popolazioni
minacciate da distruzione al persecutore/annientatore
una vittima a titolo di preventivo risarcimento di
eventuali ancorchè sconosciuti e forse antecedenti torti
subiti dagli stessi invasori, questi decidano di
ritenersi appagati con il cruento sacrificio umano –
nella vicenda proposta da Aristotele e molto dopo da
Aulo Gellio – della giovanetta Policrite e, soddisfatti
dal risarcimento ottenuto in anticipo, abbandonino
l’isola risparmiando le vite e i beni dei cittadini di
Nasso.
Non vi è alcuna ratio
e/o realistica previsione che a tale iniziativa degli
abitanti di Nasso debba corrispondere una qualche
meccanica attesa che la morte di Policrite promuova e
garantisca la loro salvezza, ma hic Rodhus, hic salta:
con il sacrificio della giovanetta questi hanno
individuato il Pharmakós per allontanare da sé
l’ansietà condivisa dalla maggior parte della
popolazione.
Rito e mito, potremmo
dire provvisionalmente, per ora, vanno perfettamente a
braccetto, mentre, in trasparenza, al di là del colto
espediente ermeneutico di Giovanni Morelli per discutere
la funzione terapeutica del melodramma, gli esegeti e
critici dell’opera metastasiana toccano il cielo con uno
o più dita, correndo compiaciuti con il pensiero alla
funzione civilizzatrice praticata e divulgata nella sua
poesia dal futuro Cesareo, fin dagli esordi napoletani
quando nelle feste teatrali dinanzi alla nobiltà locale,
filo-austriaca, egli volgeva le cruenti e mitologiche
narrazioni – specchio delle sanguinarie abitudini delle
società arcaico-primitive – in altrettanti esempi di
affermazioni della superiorità del diritto civile
conseguito dalle genti ormai sortite dai tempi dominati
da un immaginario di terrore e finis mundi
(Vico). Insomma, caro Giovanni, il vecchio e caro
Metastasio aveva capito tutto (o quasi) dall’ultimo
piano dell’appartamento viennese della Michaelerhaus
nell’omonima Michaelerplatz a due passi dalla
Michaelerkirche, nella cui cripta infine i suoi resti
mortali andarono a riposare per sempre, ed ancora
dovrebbero trovarsi secondo quanto ad oggi ci è dato
sapere. Del resto, proprio tu Giovanni, evocando la
predestinata Policrite per il perverso sacrificio pro
tranquillitate animi dei concittadini abitanti di
Nasso, non chiami in causa per analogia la Dircea del
metastasiano Demofoonte? Sarà solo un caso, ma
nel 1733 quando con questo dramma si festeggia a corte
l’onomastico di Carlo VI d’Asburgo, siamo nel pieno
delle schermaglie diplomatiche tra i potenti sovrani
d’Europa e Vienna volte a persuadere l’imperatore a
recedere dal consegnare alla figlia Maria Teresa la
successione al trono imperiale, visto che la legge
salica permette di affidare il Sacro Romano Impero
Germanico soltanto ai discendenti maschi, opportunità
questa irreparabilmente persa da Carlo VI, per cui egli
dovrebbe passare ad altra casata tedesca e/o europea la
titolarità di reggere le sorti del potere politico
inaugurato da Carlo Magno, pena la guerra che, ça va
sans dire, immancabilmente scoppierà. Dircea quindi,
come vergine destinata dalla tradizione al sacrificio è
figura di Maria Teresa, con l’aggiunta della
singolare capacità premonitrice, da parte del Poeta
Cesareo, che né all’eroina della finzione scenica (Dircea)
e neppure alla beneamata figlia di Carlo VI toccherà di
immolarsi per il bene della comunità, come invece fu per
la giovanetta di Nasso.
Ma, se torniamo ad
occuparci, insieme a Giovanni Morelli, di Policrite, che
cosa fanno gli abitanti di Nasso dopo che la vittima
predestinata, contrariamente alle aspettative generali,
ha fatto invaghire di sé il capo-banda degli Ionii
invasori e, dopo avergli carpito i segreti militari
dell’infame spedizione, riesce a tornare sana e salva
tra i suoi e, rivelando le trame belliche e le
debolezze degli invasori, permette ai suoi concittadini
di debellarli? L’omaggio edificante degli
abitanti di Nasso alla concittadina che li ha messi in
condizione di salvarsi non potrebbe essere più
sorprendente: sopra Policrite, omaggiata solennemente da
ogni isolano, vengono collocate ghirlande, gioielli,
primizie, tappeti, sontuose vesti, scialli fino al punto
che la poveretta, sommersa dal peso dei doni, muore per
soffocamento. Sì, abbiamo capito esattamente come sono
andati i riti di ringraziamento degli abitanti di Nasso:
la vittima predestinata non può sfuggire al ruolo che le
è stato assegnato come remedium ovvero
Pharmakós all’incombente tragedia; questo sacrificio
è stato promesso alle divinità che sovrintendono alla
moira e all’ananke, ovvero se una promessa è
stata fatta, ebbene essa va mantenuta, idest: il
Pharmakós ha funzionato per scacciare l’angoscia
dall’animo degli abitanti di Nasso ed è quindi giusto
che esso sia dissolto nel corpo degli ammalati, cosa
che, a ben vedere, è propriamente il compito assegnato
ad ogni remedium che si rispetti.
Orbene, in questo
suggestivo recupero di storie mitologiche passate
attraverso la sapienza narrativa di Aristotele – ipse
dixit – , Giovanni Morelli, a me pare, mette in
gioco una serie di rinvii e discorsi meta-semantici.
Il primo immediato
richiamo chiama in causa la dura realtà meta-simbolica
della morte, predestinata, di Policrite, come a dire che
il Pharmakós può dare la morte. Sulla natura
tautologica della vicenda di Policrite di Nasso:
Policrite/Pharmakós-capo dei barbari assedianti,
abitanti salvati-Policrite/Pharmakós si dipana
tutta la paradossale e atipica narrazione saggistica di
Giovanni Morelli, che non a caso si conclude nell’ultimo
capitoletto del libro con la morte di due farmacisti,
inflessibili sperimentatori su sé stessi di ogni tipo di
placebo, l’ultimo dei quali, improvvidamente, consegna
entrambi all’al di là.
I due farmacisti prima
di fare la fine ingloriosa di avvelenarsi per eccesso di
sperimentazione e simulazione sono scoperti dal loro
ospite narrante quali entusiasti cultori,
informatissimi, della musica del Settecento, in
particolare dell’infinita serie di arie metastasiane,
intonate dai più noti e meno noti musicisti del tempo, e
possessori di pregevoli e inedite carte musicali di
J.A.
Hasse, uno tra i musicisti più amati da Pietro
Metastasio, fogli musicali naturalmente contenenti le
parti di famose arie del Poeta Cesareo. Non c’è da
stupirsi, quindi, che la morale della sorprendente
esperienza umana fatta (e qui, ovviamente,
sarcasticamente finta) da Giovanni Morelli consista
nell’opportunità, propria dei nostri tempi calamitosi,
che si possa essere noi stessi responsabili, quasi a
nostra insaputa, del remedium-Farmaco che
dolcemente ci consegna all’aldilà, mentre ancora vediamo
e sentiamo i due eccentrici farmacisti far risuonare nel
loro ambiente le arie di Metastasio con le musiche di
Vivaldi, Pergolesi ed Hasse. Giovanni non nomina
l’episodio celeberrimo della “coppia d’alto affare”, don
Ferrante e donna Prassede, ne I Promessi Sposi
del Manzoni, in cui l’erudito capo-famiglia dopo avere
dimostrato sillogisticamente che l’epidemia di peste non
lo può riguardare, condanna se stesso ad una morte
pressoché inutile a chicchesia, ed ovviamente, prima di
tutto, alla sua ingenua dabbenaggine. Certamente l’
“esperienziale” narrazione di Giovanni è molto più
raffinata, meno moralista di quella del Gran Lombardo
dell’Ottocento, ma come non ricordare, considerata la
fine dei due farmacisti, ciò che capitò a don Ferrante,
dopo avere strologato sulla peste?
His fretus, vale a dire su questi bei
fondamenti, non prese nessuna precauzione contro
la peste; gli si attaccò; andò a letto, a
morire, come un eroe del Metastasio,
prendendosela con le stelle.
Dunque, nella nicceana
circolarità della paradossale vicenda, da leggersi
ovviamente come l’eterno ritorno all’identico – il
Pharmakós
traducibile quale incrocio e sovrapposizione
dall’originale sostantivo neutro greco tò phármakon
(con i suoi significati multi fattoriali: medicamento,
rimedio, veleno, etc., etc.) con il sostantivo maschile
greco ó pharmăkós (con gli altrettali significati
plurimi: avvelenatore, mago, delinquente, vittima
espiatoria, etc., etc.) –, parrebbe proprio che Giovanni
Morelli abbia voluto misurarsi, con l’autoironia che gli
era propria e il sarcasmo erga omnes musices nostri
temporis, con l’universo mondo di ciò che Th.
Wiesengrund Adorno chiamava l’andar a morir cantando
concernente quello straordinario fenomeno culturale che
è il teatro d’opera dell’occidente europeo, a tutt’oggi
spettacolo capace di suscitare da Est ad Ovest del
nostro pianeta entusiasmo e passioni, a dispetto degli
ormai ricorrenti sbalzi pressori prodotti dal
finanz-capitalismo (Luciano Gallino) ai giorni
nostri.
Una lettura al
quadrato
La chiave di lettura de
Il paradosso del farmacista/ Il
Metastasio nella morsa del tranquillante non
potrebbe quindi consistere in una sorta di burbero, per
quanto sarcastico, quasi irriverente, omaggio reso al
più celebrato e fortunato autore di melodrammi in lingua
italiana del XVIII secolo, a dispetto e in piena
indipendente autonomia dalla saggezza
realistico-cattolica del Manzoni, nonché dalle
intemerate adorniane, tipiche della Dialettica
negativa del filosofo tedesco?
Va detto, prima di tutto,
che, inaspettatamente, ma in pieno e solidale accordo
sia con il Cesareo sia con chi scrive questo In
memoria di Giovanni Morelli, il cuore pulsante,
ovvero il centro focale dell’analisi condotta dall’amico
improvvidamente e immaturamente scomparso sgombra il
campo dall’equivoco che il libro vada inteso e compreso
nell’ottica dell’art pour l’art facendo a meno di
ricorrere ai consueti e privilegiati appoggi tonali:
oh quel meraviglioso rondò!, quell’accordo di
settima diminuita!, quello stupefacente diminuendo
degli archi al commiato dalla vita di Didone!, note
armi del mestiere per ogni musicologo che voglia
rispettare il suo e l’altrui ruolo e la famosa
superiorità della musica sulla parola.
Ma non è soltanto
riconoscere a Giovanni Morelli la più abissale
lontananza da ciò che Antonio Gramsci definiva come
bellettrismo – moda malcelata oggi, ben oltre la
comune tendenza, da molte prestigiose firme nelle pagine
culturali dei più diffusi giornali italici – che ci
rende possibile osservare come la posta messa in gioco
sul tavolo sia stata per lui proprio la
rappresentabilità del desiderare, idest: dell’io
come attività desiderante, per dirla alla Jacques
Derrida.
Ed allora a chi se non
proprio a Pietro Metastasio e al suo melodramma quale
vertice del desiderio e del sentimento, declinati in
tutte o quasi le immaginabili versioni e torsioni
dell’animo umano, è toccato in sorte di tornare quale
pietra di paragone per una sorta di narrazione del
disincanto dal quale Giovanni Morelli, non è riuscito
più a separarsi?
Ma è proprio questo – il
desiderio e la sua rappresentazione – la giusta chiave
di lettura del poliedrico interesse di Giovanni per
Pietro Metastasio e il suo melodramma, o non piuttosto è
il desiderare nient’altro che recita, ovvero
rappresentazione come pratica sapiente del suo
annullamento, alla maniera che sarà disegnata da
Schopenhauer?
Dare al (Poeta)
Cesareo quel che è del (Poeta) Cesareo?
Se quindi nel disincanto
di Giovanni vi è molto del materialismo sensibile e
percettivo del cattolico Metastasio, il quale ponendo la
sua fede nel Dio del sacrificio cristiano, si libera da
ogni pretesa illusoria, per sempre, di ritenere la
salvezza come un supremo ed ultimo dono messo a
disposizione dell’umano dalla divina Verità. Se, ancora,
il desiderare è la malattia per la quale nessun farmaco
serve alla guarigione se non quello che ci assicura
l’annientamento, allora nessuna nostra opera, nessun
nostro darci da fare può garantirci la salvezza.
Ma allora, se insomma il
Cesareo ha seguito internamente il foro dell’educazione
spiritual-cristiana degli oratoriani di San Filippo Neri
appresa in gioventù a Roma, di quei filippini prossimi a
quella pre-destinazione agostiniana per nient’affatto
gradita alle alte sfere vaticane (per non parlare poi
della Compagnia di Gesù), gradita invece ai seguaci ed
eredi di Pascal, Jansen, Arnauld, Quesnel, perché,
verrebbe da chiedersi, Pietro Metastasio non ha
strutturato il suo dramma-non-tragico su quella crisi
identitaria dell’anima cattolica che nella stessa Italia
settecentesca avrebbe visto Scipione de’ Ricci, vescovo
eretico di Pisa, combattere, fino a soccombere,
naturalmente, per l’indipendenza delle chiese riformate
giansenisticamente dall’assolutismo centralistico del
Papa e di Roma? E prima dell’eretico vescovo di Pisa,
addirittura papa Clemente XIV, al secolo Giovanni
Vincenzo Antonio Ganganelli, impegnatosi, con lo
scioglimento della Compagnia di Gesù nel luglio 1773, ad
un processo di rinnovamento spirituale e morale della
Chiesa, tanto da debilitarne la salute, per l’avversione
alle sue decisioni, fino a morire nell’autunno del 1774
a soli 69 anni?
Giovanni Morelli ha una
precisa risposta a questa domanda cruciale – quesito,
peraltro, estraneo alla sua récherche
metastasiana, o, per lo meno, non direttamente
individuato tra i pensieri retrostanti o sottostanti
l’opera per il teatro musicale del Cesareo. La risposta
la si legge nel capitolo intitolato: Sogno d’un
ecosistema regressivo complicato dalla semplicità,
nel quale un paio di lettere scambiate tra Pietro
Metastasio e il noto marchese di Chastellux innescano e
quindi suggeriscono al poeta una rilettura dei suoi
drammi come recitabili in teatro senza la musica, quasi
possano essere vere opere tragiche:
Infatti –
parola di Giovanni Morelli – i suoi
drammi «tranquillizzati» e tanto, tanto
«tranquillizzanti», costruiti e composti
interamente sulla scorta di una saturazione
dell’intera gamma di «rappresentazione» della «tranquillizzazione»
non potranno mai e poi mai essere de-costruiti
nel senso di un «ritorno alla Tragedia» (quando
appunto la loro materia unica, la loro
fenomenicità, è proprio la tosatura, già
compiuta, di tutti i «capri [tragici]
possibili»).
Facendo un passo
indietro, là dove Giovanni analizza la prima lettera di
Metastasio il 15 Luglio 1765 in risposta allo Chastellux,
la recisa affermazione del Cesareo:
I miei drammi in tutta
l’Italia, per quotidiana esperienza, sono di gran lunga
più sicuri del pubblico favore recitati da’ comici che
cantati da’ musici, prova alla quale non so se potesse
esporsi la più eletta musica d’un dramma, abbandonata
dalle parole,
suona quale dimostrazione
di un processo regressivo, proprio della fase senile e
di decadenza del poeta degli Asburgo, nel quale
l’assurda millanteria di avere esperienza quotidiana di
rappresentazioni dei suoi drammi nei pubblici teatri di
prosa dell’Italia si sposa in modo altrettanto
incomprensibile – secondo Giovanni Morelli – all’oscuro
desiderio di intraprendere quasi una nuova carriera,
quando tutta la sua vita è stata dedicata a costruire
drammi per e con la musica.
Poco importa osservare
che il “millantatore” Metastasio pur non potendo da
Vienna avere una quotidiana esperienza in Italia non
solo e non tanto né dei suoi drammi messi in musica, lì
rappresentati, né delle vantate recite come tragedie in
prosa, nella prima lettera in risposta allo Chastellux
intenda rivendicare, senza tema di incorrrere in qualche
vanteria di troppo – (era o non era, dopo tutto, Il
Poeta Cesareo?) – la piena autonomia poetico-drammatica
del suo teatro. D’altronde, quale e quanto fosse la
fortuna e il successo dei suoi drammi, feste teatrali e
oratori, in Italia, gli era resocontato e confermato
dall’ampio e pressoché quotidiano notiziario ottenuto
corrispondendo da Vienna con il fratello Leopoldo, con i
nobili napoletani, già testimoni dell’avvio della sua
folgorante carriera, dalla principessa di Belmonte ad
intellettuali e grandi eruditi come Saverio Mattei, e da
una vera e propria moltitudine di letterati di quasi
tutte le regioni del bel paese. Come dimenticare, poi,
che durante le effimere Repubbliche di Roma e Napoli,
tra il 1798 e il 1799, Catone in Utica e
Attilio Regolo furono recitate come tragedie, ovvero
come esemplari manifestazioni delle virtù libertarie
sempre appartenute alla tradizione storica e culturale
della civiltà romana?
La straordinaria
premonizione che con i melodrammi storici più
amati dal suo autore Metastasio avrebbe realizzato, a
fine secolo e dopo la sua morte, una sorta di miracolo,
ovvero l’eterogenesi dei fini del suo melodramma,
rispetto al ruolo assegnato da alcuni, con qualche
eccessiva malevolenza, all’intera sua opera, intesa come
rivolta a sedare e dominare desiderio e passioni, tale
preveggenza, per così dire, poteva già essere
rintracciata, nella seconda metà degli anni Sessanta del
XVIII secolo, con la lettura dell’Estratto della
Poetica d’Aristotile e considerazioni su la medesima,
opera estetico-teorica con la quale Metastasio conferiva
al suo dramma-non-tragico uno statuto teorico
perfettamente autonomo, riallacciandosi alla tradizione
storica del teatro greco e latino. Nel trattato,
Metastasio riusciva a dimostrare che per condividere con
gli uomini del suo tempo, e forse dell’avvenire, le
capacità donative e positive di ogni individuo
nell’aggiungere e non sottrarre beni ed energie,
benessere e felicità nell’esistenza vissuta, alla natura
e alla vita degli altri individui, non fosse necessario
suscitare negli spettatori della moderna drammaturgia il
senso dell’orrore di fronte a catastrofi e a delitti
esecrabili da parte dell’uomo, affinchè soltanto con la
catarsi dal male realizzato sulla scena ognuno
potesse rivolgersi e propendere al bene, così come
riteneva, tra gli altri, il Dacier, seguace francese,
nella più stretta scolastica osservanza, della
Poetica di Aristotele.
Era invece possibile, per
Metastasio, rendere visibile, esemplare e desiderabile
l’operosità del bene, della giustizia, della
magnanimità, e del perdono, in quanto valori/virtù
efficaci anche nella vita ordinaria di illustri
personaggi (della storia e/o nella invenzione
letteraria) ancorchè questi fossero noti e conosciuti
come rappresentanti di forze il più delle volte oscure,
di poteri assoluti e intangibili, e quindi pressoché
separati dalla normalità della comune e “bassa” umanità.
I valori/virtù,
vittoriosi su avversità, contraddizioni, ed insanabili
conflitti, proponendosi come conquista difficile e
meritoria dell’ “eroe”, idest: come se questi
fosse catapultato nel mondo con le sue sole forze
naturali a decidere sul bene e sul male, tali valori,
dunque, finivano per conferire agli illustri personaggi
una medietà/normalità morale, riconoscibile come
pertinente (e desiderabile) alla generalità e
universalità del genere umano, indipendentemente dalle
condizioni di classe, di censo e di nascita.
Ho voluto proporre questa
sintetica e sommaria descrizione della sistemazione
teorica operata da Pietro Metastasio su tutta la sua
produzione poetica per rendere più chiaro ed esplicito
il senso e il significato della rimessa in questione, da
parte di Giovanni Morelli dell’affaire
Metastasio. Il Poeta Cesareo, relegato nei gelidi
Trioni, aveva rivolto i suoi sforzi non tanto e non
esclusivamente a tranquillizzare e sedare animi e
passioni quanto, piuttosto, ad addomesticare e a
civilizzare le infinite modalità dell’inimicizia e delle
ostilità tra gli esseri umani della propria epoca e tra
la natura e quest’ultimi. In particolare, con misurata
non irriguardosa vena poetica educante, il teatro
musicale del Cesareo si rivolgeva da una parte al
pubblico aristocratico e pre-borghese di Vienna,
dall’altra invitava ed ammoniva i tre imperatori
d’Asburgo succedutisi durante la sua vita, all’eticità
erga omnes del loro potere politico
assolutistico.
A questo compito immane,
ingrato ed extra-ordinario che il Poeta Cesareo si è
assunto: creare un verosimile scenario come ideale
tavola di valori per una vita e un vivere potenzialmente
felici, la narrazione storico-critica e saggistica di
Giovanni Morelli oppone il contro canto di un caos
entropico, quale perenne ed inestinguibile dissipazione
della materia-energia, del tutto e completamente
deprivata di qualsivoglia exitus, né storico né
teologico, e neppure teleologico, caos dissipativo – si
badi bene – capace di dividere, disunire e moltiplicare
le differenze e le opposizioni interumane, a tutto
vantaggio, infine, di coloro – non molti, peraltro – che
siano in grado di servirsi del caos per accrescere così
la propria condizione sociale e politica egemone.
Il contro canto è
disegnato esemplarmente nel capitolo: Una Gran Brutta
Botta (Primo Novembre 1755), giorno/mese/anno della
chiamata in causa del caos, stavolta distruttivo e
nient’affatto creativo, appunto, che con il tragicissimo
terremoto di Lisbona, diede modo, come è noto, a molte
penne filosofiche del secolo di esercitarsi, e in parte
emendarsi dalla fin’allora tranquillizzante idea della
terra, intesa come luogo naturale privilegiato (da chi e
per chi, poi?) e il migliore tra i mondi possibili,
facendo liberare tutta la vis polemica di
Voltaire con la sua avversione ad ogni teodicea di
memoria leibniziana, fatta eccezione per Rousseau che
preferì invece rimproverare il filosofo di Candide:
Il primo novembre 1755, a Lisbona, una cruda
fatalità irrimediabilmente oltraggiosa smentì,
letteralmente ab imo, fin dalle
fondamenta, i migliori auspici dell’erezione del
miglior teatro metastasiano del mondo, quello di
Lisbona, infatti, il quale, centottantuno [181]
giorni soltanto dopo la sua fortunata
inaugurazione in nomine Alexandri, il
giorno della festa di Tutti i Santi, che
quell’anno cadeva di sabato, fu raso a terra tra
i boati delle contratture del suo sottosuolo
tormentato dai profondi spasmi delle sue viscere
nere, in otto minuti e mezzo. Negli stessi 510
secondi di quel sabato in cui nel minimo tempo
di un unico lungo scuotimento si inscriveva la
sparizione incenerita e polverizzata al nero del
Gran teatro dell’Opera Reale di Lisbona, anche
la città, tutta la città di Lisbona fu
atterrata, mirabilmente stazzonata da un
terremoto corrispondente […] al nono grado della
scala di Charles Richter; solo due monasteri – e
neppure a dire il vero, quelli connessi ai culti
più dotati di pratiche di devozione ovvero sedi
di devozioni sinceramente vissute, anzi i due
soli conventi «chiacchierati» della capitale –
solo due, comunque, dei ventiquattro edificati
in città, non furono annientati. La botta
uccise, inoltre, tutte assieme, 37.125 persone.
Quel che non fecero i rovinosi roghi che da soli
s’appiccarono, in 365 focolai altamente invasivi
[…] lo fecero la malavita organizzata
(miracolosamente salva e salvata in ogni suo
ordine di livelli operativi) che sguinzagliò gli
sciacalli nei posti più redditizi per il
saccheggio, e, a loro modo, più
disordinatamente, fecero le pellacce più dure e
sub-umane della suburra e del
Lumpenproletariat (che si arrangiarono da
pari loro). Nel giro di poche ore – non più di
20-30 – le sordide condizioni di lorda e
risicatissima sopravvivenza dei pochi infelici
scampati fecero scattare la furia devastatrice
dei morbi […], della diffusione pandemica
massiva della pestilenza.
Per contro, una (chiamiamola così) «fortunata»,
una fortunata combinazione, fortunata e fatale,
aveva voluto e fatto, però, che Reali, Corte,
Governo, Diplomazia, alta e medio-alta
Burocrazia, Fornitori Reali, Aristocrazia, Poeti
e personalità diverse della Cultura (fra cui
anche il Maestro della Cappella, Perez) […],
Usurai e Finanzieri […], Maestri di canto e di
scherma, Profumieri, Filosofi da camera,
Predicatori, Scuffiari e Modiste […], Camerieri
privati della Curia vescovile, Scudieri e simili
tipi di gente, non fossero a Lisbona, quel
sabato fatale, in quanto tutti lontani.
Tutti lontani – quanto basta – dalla capitale:
in villa e in campagna, nel rispetto della
tradizione che voleva la festa d’Ognissanti
fosse santificata, dai distinti notabili, e
dagli altri bennati, lontano, molto lontano
dalle sedi civili: celebrata in situazioni di
festa ma anche di preghiera il più
possibile, entrambe, «vicine alla natura».
Fatale fu anche che in virtù di questa
combinazione di date e destini gli esemplari di
quella bella ciurma di sopravvissuti fossero
tutti vivi e, […] ovviamente giustamente, tutti
un po’ grati al Cielo, il mattino della domenica
seguente: il 2 novembre.
La travolgente
affermazione del male e del negativo, ovviamente
catastrofici, come si conviene ad un terremoto della
portata del nono grado della scala Richter abbattutosi
l’anno 1755 su Lisbona – continua ed avverte Giovanni
Morelli, nella sua implacabile e realistico-sarcastica
escussione/constatazione dei risultati/effetti prodotti,
quindi al di là di rovine e lutti inenarrabili– ebbe
comunque alcuni esiti utili:
Quella serie di cose fu utile, per esempio, al
Voltaire, cui consentì di superare ogni remora
di confutazione […] dei saggi leibniziani Sur
la bonté de Dieu, la liberté de l’homme et
l’origine du mal, colte l’una come panzana
(la bonté), l’altra come icona di una
conquista pressoché impossibile o, peggio, come
bubbola (la liberté), e l’altra (l’origine
du mal) non come una memoria primordiale ma
come un’immanenza eternamente ricostituita,
automaticamente favorita dal suo stesso
ricostituirsi in stati di presenza a sé vieppiù
maligna; ad onta di ogni eroico tentativo di
rimediarla. Fu utile a Kant per avviare il
processo di costituzione del pensiero critico.
Fu utile al Maestro della musica dei Reali
lusitani, a Davide Perez, che ragionevolmente
fece il voto, forse superstizioso, comunque
saggio, di non musicare mai più libretti del
Metastasio (e si mantenne, nel voto – con la
conferma, nell’eccezione, di due isolati e
tardivi episodi cameristici di canto off
stage: un’Isola disabitata [12 anni
dopo il sisma] e una «azione allegorica»; La
Pace fra la virtù e la bellezza [22 anni
dopo il sisma], ad uso esclusivo del Palazzo;
composte l’una a buona distanza dall’altra,
separate appunto, da due corposi riposi
[1767-1777] – ).
Che dire allora della ricaduta di quel fatto
sulle quotazioni delle teodicee favolistiche dei
«regni pastorali» e degli «anodini» e anche sul
Metastasio stesso? Che dire?
Giovanni, dopo avere
dispiegato tutta la più feconda e doviziosa vena
narrativa, degna del Manganelli di Hilarotragoedia,
o fors’anche del Gadda de La cognizione del dolore,
come a sottolineare la parallela, incomparabile ed
immane energia impegnata nell’opera del
tranquillizzante e sedante Metastasio, da una
parte, e delle forze del caos naturale ed umano,
dissipative, idest: il caos entropico arrecato
dal terremoto di Lisbona, convoca di bel nuovo Policrite
di Naxos, sì proprio la giovanetta simbolo ed emblema
del Pharmakós per merito di Aristotele e di Aulo
Gellio, vittima sacrificata per allontanare le ansie e
le pene dei suoi amati concittadini. Ma neppure
Policrite nulla potrà dinanzi all’imprevedibile (e
immaginato/supposto) sterminio di coloro per i quali (e
ad opera dei quali, occorre ricordare) ella ha perso la
sua giovane fiorente esistenza:
[…] Potremmo provare a immaginare quale avrebbe
potuto essere , a Naxos, il sentimento-base di
una Policrite, la quale salvata dalla postazione
tradizionale del Farmaco, una volta passata per
buona la vittoria dei suoi compatrioti sugli
invasori, se ne fosse andata a villeggiare in
una zona amena ed appartata della sua bella
bianca isola patria, e che al ritorno si fosse
trovata di fronte allo spettacolo del suo popolo
sterminato in pochi minuti da una fulminante
epidemia da contagio di una peste ovina,
trovando a terra, riversi, donne, uomini,
vecchi, bambini, in cumuli di marcescenti,
putrefatti, grigi e pustolosi cadaveri, coperti
di bubboni violacei e gialli, crepati ed esplosi
in un lento, persistente, non ancora interrotto
scolo degli umidori dei pus.
[…] Non avrebbe saputo che spremere, la nostra
Policrite, in termini di senso, non avrebbe
saputo che spremere in termini di significato e
di «verità», dalla visione del loro
destino, così rappresentato rasoterra, se non un
sentimento irrappresentabile di negatività
assoluta […]. Un sentimento di negatività votato
alla ricerca di una modalità di auto-distruzione
per contro indisponibile (né un vero giusto
morbo, né un vero farmaco adeguato, sarebbero
stati alle viste, per la nostra sopravvissuta
Policrite, a fungere da causa e da contrasto
fallibile della sua propria necessaria morte
riparativa, la quale del pari sarebbe stata
non-riparativa di nulla, perché nulla era
restato attorno a lei da riparare).
Attraverso questo
mutamento ad libitum dell’antica vicenda di
Policrite, Giovanni finisce per rovesciare completamente
il processo che dal Mito è pervenuto e quasi precipitato
nella Metafisica Sei-Settecentesca: dopo il terremoto di
Lisbona non è più consentito ritenere che Storia e
Ragione, vichianamente, ma neppure con le filosofie da
Cartesio a Leibniz, possano riguardare il passato e
l’antico con gli occhiali di un incessante irresistibile
progresso.
Si dovrebbe concludere,
in accordo con Giovanni Morelli, che il Poeta Cesareo,
purtroppo per lui, pur defilato saggiamente rispetto
alla ben nota dissacrante vena iconoclastica di Voltaire
– (ricordo en passant che l’autore di Candide
provò varie volte a mettersi in contatto con Metastasio
per far nascere virtuose alleanze destabilizzanti il
potere dell’ancien régime e dei feudatari
a questo appigionati, che addirittura volle rifare il
dramma del Cesareo, L’eroe cinese, tanto gli era
piaciuto, per ridurlo a vera tragedia, ne L’orphelin
de la Chine) – a causa della fede cattolica, del
rispetto verso il datore di lavoro, ed in forza della
sua conoscenza del mondo, non volle farsi tentare e non
volle sciogliere le vele, come il suo Enea, e
rimase aggrappato alla meritoria funzione
tranquillizzante che s’era costruito: ammaestrare nobili
e ricchi, re regine ed imperatori a battere la strada
della giustizia, del bene, dell’amicizia, dell’amore,
della fedeltà, dell’onore, della magnanimità e così via
e sia.
La crisi della parola
poetica e non poetica e la tentazione di introdurre
«Sein und
Zeit»
onde consolare
gli orfani della Scuola di Darmstadt
Visione panoramica di Darmstadt
Si può al limite della
più arbitraria-non documentata esegesi sostenere che
Pietro Metastasio sia stato colto dagli anni Cinquanta
in poi, all’incirca, dall’infelice desiderio di
sterilizzare la sua poesia, magari per farla rinascere
più viva che pria, ricorrendo egli, Poeta
Cesareo, alla musica, e provando ad intonare liberamente
sul clavicembalo le note pensate, ma solo pensate, ad
esempio per la sua celeberrima canzonetta A Nice?
Ma come, ci si chiederà:
Pietro Metastasio preferisce, ad un certo punto della
sua cesarea esistenza, nel pieno della fortunatissima
carriera viennese – siamo negli anni Cinquanta del
Settecento –, comporre musica pensando i suoi versi
piuttosto che accordare ed adattare l’intonazione alla
prosodia del testo poetico?
La scoperta da parte di
Giovanni Morelli di un Metastasio impegnatosi
incredibilmente a perlustrare nuove strade espressive,
quasi sperimentalmente, ben quindici/venti prima della
composizione dei famosi canoni musicali con i quali il
Cesareo tentava di proporsi non più e non solo alla
nobiltà di corte ma anche nei salotti della benestante
borghesia viennese, viene narrata dall’autore de Il
Paradosso del farmacista con la consueta e sorniona
vena sarcastica:
Nel 1750 il Metastasio viaggiava forse su di
un’altra frequenza d’onda. Nessun rigetto della
cantabilità si scorge in agguato nel suo
precosciente quando trasmette sia all’amico
castrato e virtuosissimo
«rosignolo» Farinelli sia alla
principessa napoletana di Belmonte […] le
musiche da lui stesso composte per la celebre
canzonetta per la partenza di Nice. Musiche, a
dire il vero, in piccola controtendenza,
esemplarmente non- o anti-virtuosistiche
(«semplicissime»):
«la musica è ordinaria ed è mia: ma chi voglia
cantarla con un poco di espressione ci troverà
quel che bisogna per persuadere una Nice. Il
di più produrrebbe un applauso al MUSICO e
minori vantaggi all’amante…[…] Nel 1750 il
poeta sostiene di scrivere versi soltanto su
canto dato: dato da sé a sé. Nel 1750 chiede
musica non solo per i versi teatrali o per le
arie e le cavatine, ma anche per le
poesie-canzonette più pure e astratte, che nulla
ha costretto a farsi musicare. Non si dimostra
insofferente delle intonazioni come lo abbiamo
poco fa ritrovato quindici anni dopo, ma le
prefigura, le «immagina» di suo, quelle
intonazioni, prima ancora di scrivere quei
versi. Nel 1750 non aspira ad alcun regresso
linguistico preistorico, dimostra forse soltanto
una certa inclinazione per la soluzione musicale
«da camera», da quell’ipocondriaco che è […].
Verrebbe perciò naturaliter ritenere, una cum
Giovanni Morelli, che il Poeta Cesareo abbia proprio
anticipato i tempi e di molto quand’anche e forse
esattamente in forza di ciò che lo storico veneziano
chiama diminuzione della realtà, ossia poesia
anodinica, così che Metastasio è approdato a quella
decostruzione di senso e di riferimento alla realtà
della parola poetica alla quale è anteposta la pura e
semplice cantabilità musicale. L’ineffabilità
dell’essere, la sua sostanziale atemporalità, qui
abbracciata da Pietro Metastasio, avrebbero dovuto
conquistare gli aficionados di Martin Heidegger,
di quel «Sein und Zeit» in cui – è noto – la metafisica
dell’Assoluto viene ridotta nel mero esserci, a
quella deiezione di cui è parte tipica ed integrante il
linguaggio, la parola e la stessa poesia.
Che dire poi del
sostenibile/in-sostenibile confronto tra gli illustri
esponenti della Scuola di Darmstadt e la
sofferta/non-sofferta conquista, un paio di secoli
prima, della poesia anodinica da parte di
Metastasio? Certamente, non si può cadere nel
macroscopico fraintendimento di paragonare il
centro/cuore della musica tonale, propria del XVIII e
XIX secolo, con la serialità dodecafonica eredo
schoemberghiana dalla quale prenderà le mosse la Scuola
di Darmstadt, nell’immediato periodo seguente la fine
della II guerra mondiale.
Ma se si tiene il confronto
nell’ambito della teoria della tranquillizzazione, idest:
anodinicità della composizione strumentale/vocale
come ad esempio in certe opere di Luigi Nono, o di
Kurtàg, o addirittura di Ligeti, per non parlare di Arvo
Pärt, si potrebbero scoprire delle ir-resistibili
relazioni, forse incentrate proprio su quella
sedazione del desiderio come istanza-in-crisi
del valore universale che, a ben vedere, costituisce
l’esito finale, pur con altri e diversi ben differenti
linguaggi connotativi, della ricerca formale del
settecentesco Poeta Cesareo e della/e Scuola/e di
Darmstadt e dei suoi irrequieti e ondivaghi interpreti.
Metastasio nella morsa
del tranquillante, ovvero l’anodino nel pieno sviluppo
del teatro musicale dei valori di magnanimità, delle
virtù elettive per la sognata coincidenza e concordia
tra sovrani/imperatori dell’ancien régime e i
sudditi delle classi popolari, delle borghesie in lenta
ma inesorabile ascesa, delle resistenti nobiltà feudali,
fulcro della provocazione intellettuale come storico
della cultura europea quale fu Giovanni Morelli,
recherebbe in se stessa – la provocazione – la lucida
anamnesi della finis Austriae, messa in scena dal
Poeta Cesareo prima ancora che di essa si occupi,
nell’età della crisi degli imperialismi novecenteschi,
durante la non lunga vigilia che condurrà dalla I alla
II Guerra mondiale, Joseph Roth, e a un di presso ne
trattino con esiti forse meno rovinosi ma egualmente
tragici personalità come quelle di Thomas Mann e di
Robert Musil.
Epitome di Giovanni
Discutere il libro di
Giovanni Morelli su Pietro Metastasio, a distanza di
tanti anni dalla sua pubblicazione, non rende che in
minima parte la sua cultura enciclopedica, ma Il
paradosso del farmacista, tuttavia, rimane un valido
esempio degli interessi scientifici, degli interrogativi
e dei dubbi che soltanto un grande saggista dei nostri
tempi, come egli fu, seppe introdurre in quel
particolare universo chiamato e noto al colto e
all’inclita con il termine di musicologia.
Non so dire se le
analogie, le comparazioni, le estensioni delle analisi
di Giovanni al pensiero filosofico, alla letteratura del
Novecento, e alla musica dodecafonica, traguardate con
il filtro del perennemente dubbioso e preda dei suoi
cancherini Pietro Metastasio, rispondano ai
requisiti di quella obiettività e rigore di indagine
critica sempre felicemente adottate in tutta la sua vita
di docente a Ca’ Foscari.
Chi tra i suoi amici e
colleghi nella ricerca musicale ha avuto modo di
riprendere in mano i testi e gli studi di Giovanni potrà
giudicare se le nostre considerazioni e riflessioni sono
veramente idonee non solo per una provvisoria
comprensione della vastità e complessità delle sue
conoscenze applicate alla musica e alla storia della
musica, ma potrà forse anche valutare se occorra
aggiungere ben altra sostanza critica per rilanciare
nell’attuale panorama culturale italiano il metodo, il
senso e i risultati rappresentati da Giovanni Morelli
nel corso di tutta una vita interamente dedicata allo
studio della grande tradizione musicale e culturale
europea.
A me non rimane che
osservare, con piena consapevolezza di ciò che qui
affermo, che ben pochi sono stati nel nostro paese gli
intellettuali che hanno affrontato l’arte tonale con una
ricchezza e sensibilità interpretativa così rilevanti da
consegnare la cattedra universitaria di storia della
musica alla dignità di una vera scienza dei segni e dei
significati del suono.
Per un’arte effimera come
la musica, legata esclusivamente alla facoltà mnemonica,
di sintesi e di gusto di tutti coloro che la
sentono eseguita da pochi interpreti e/o da
un’orchestra, avere usufruito delle capacità e della
passione critica di Giovanni Morelli per fissarne in
modo determinato le valenze emotive e razionali, non è
stato davvero poco, bensì ha rappresentato e costituito
quel fondamentum sul quale proseguire la
costruzione di edifici altrettanto solidi e duraturi,
per saperi non facilmente abbandonati nell’oblio e
all’ingiuria del tempo.
Febbraio
2012
Mario Valente