Adriano in Siria, dramma per musica di Pietro Metastasio (Vienna, 1732)
Musica di Giovan Battista Pergolesi
Prima rappresentazione Napoli, Teatro San Bartolomeo, 25 Ottobre 1734
VII Edizione Pergolesi Spontini Festival
Venerdì 7 Settembre, ore 21
Domenica 9 Settembre, ore 21
Jesi, Teatro G.B. Pergolesi
Direttore Ottavio Dantone
Regia Ignacio Garcia
Scene e costumi Zulima Memba del Olmo
Orchestra Accademia Bizantina
Personaggi e Interpreti:
Farnaspe Olga Pasichnyk
Adriano Marina Comparato
Emirena Lucia Cirillo
Aquilio Francesca Lombardi
Sabina Nicole Heaston
Osroa Carlo Allemano
Raramente avviene in Italia, nonostante un rinnovato interesse in quest’ultimo decennio dei nostri teatri lirici per l’opera in musica del Settecento, che la rappresentazione di melodrammi come appunto Adriano in Siria (Metastasio-Pergolesi) possa beneficiare del comune ed integrato lavoro preparatorio di tutte le componenti artistiche. Molti sono i motivi che concorrono a tenere ben distanti gli uni dagli altri l’orchestratore-direttore dal regista, i cantanti dal direttore, questi dallo scenografo e costumista. Per segnalare in generale, rapidamente, una tra le tante cause, per lo più latenti cioè nascoste probabilmente alla stessa consapevolezza degli interpreti, è sufficiente tenere presente che in questa separatezza di ruolo e competenze perdura la ormai storica e inveterata abitudine del deja-vù, vale a dire delle incalcolabili repliche nell’ Otto e Novecento, fino a questo scorcio d’inizio del nuovo millennio, di cui hanno usufruito le opere liriche del repertorio ottocentesco (per citare uno per tutti: il melodramma verdiano). La stabilità, considerata come vera e propria egemonia, dell’interpretazione musicale, stante il più delle volte la limitata capacità semantico-evocativa del libretto e l’altrettanto suo limitato contributo al successo dell’opera lirico-sinfonica, fa sì che, quasi affatto automaticamente e meccanicamente, la relazione tra interpreti e pubblico debba essere assegnata quasi per intero al ruolo del regista, coadiuvato dallo scenografo e dal costumista. In altri termini, la musica sarà anche diretta da un grande ed affermato direttore, l’opera si avvarrà di validi e affabulanti cantanti, ma se la rappresentazione dell’opera lirica potrà ambire a penetrare l’attenzione e la memoria del pubblico, affermandosi in esse quale novità (nonostante magari, per assurdo, il ventesimo allestimento in 3 anni sempre dello stesso spettacolo), ebbene tutto ciò sarà merito principale del regista teatrale e della messa in scena dei suoi stretti collaboratori. Va da sé, poi, che se direttore d’orchestra e cantanti forniranno prestazioni di livello queste risulteranno esaltate dalla regia a sua maggiore gloria.
L’interpretazione del testo drammatico nella sua componente poetico-letteraria viene perciò affidata al regista che vorrebbe svolgere quasi il ruolo che nel Settecento del cosiddetto “belcantismo” avevano i cantanti, i castrati, soprattutto, e le prime donne del tempo. Infatti, gli impresari affidavano a questi il compito di riempire le sale con i loro prodigiosi trilli, acuti e gorgheggi mozzafiato, imponendo a librettisti e musicisti sia di adeguare parole e musica alle doti degli interpreti canori, sia di accontentarsi di compensi molto inferiori.
Oggi, nell’epoca di più “raffinato” sentire, non ancora comparse sull’orizzonte della scena altre Tebaldi e Callas, altri Corelli e Del Monaco (per citare soltanto alcuni tra i grandi cantanti del repertorio ottocentesco), il regista del teatro musicale è chiamato a sollecitare all’estremo, con sorprendenti contaminazioni, i significati e il senso poetico-letterario del dramma per musica. Sulla partitura il regista non può solitamente intervenire, salvo trattare con il direttore dell’orchestra o chi per lui “sapienti” tagli ai recitativi, alle arie, ai cori, determinando così anche i relativi scorciamenti musicali. L’obiettivo della regia è di ottenere la massima partecipazione di pubblico, semplificando e radicalizzando i temi fondamentali trattati dal testo, specie quando esso, come nel caso della poesia per musica del XVIII secolo, rispondendo a precise esigenze di gusto, sensibilità e piacere estetico degli spettatori del tempo, potrebbe non consentire, oggi, a noi un’immediata comprensione e fruizione del testo e dell’ante-testo.
Ebbene, anche il nuovo allestimento di Adriano in Siria, prodotto nella VII edizione del Festival Pergolesi Spontini al Teatro Pergolesi di Jesi è incappato nella ormai collaudata “rivisitazione” del testo drammatico, in questo caso di Pietro Metastasio, stavolta affidata al regista Ignacio Garcia, coadiuvato dalla scenografa-costumista Zulima Memba del Olmo e proprio non si avverte l’auspicata collaborazione tra le componenti artistiche dell’allestimento. Essa è ancora una volta elusa, nonostante la datata edizione critica della partitura pergolesiana di Dale E. Monson avrebbe potuto e dovuto suggerire sia una più accurata verifica e collazione testuale sia conseguentemente una più attenta ricognizione sul testo poetico e sugli allestimenti storici più rilevanti e attendibili.
La messa in scena del dramma, il cui plot narrativo è incentrato sulla storia romana dell’imperatore-filosofo Adriano in una fase ancora gloriosa dell’Impero, ci offre colonne smozzate in rovina come se fosse passata un’orda barbarica devastatrice; mentre il vinto re dei Parti, Osroa sembra uscito con i suoi vestimenti primitivi e sdruciti, succinti e poverissimi o da un affannoso combattimento con una muta di cani randagi, ovvero, incarognito, da un hollywoodiano cartone animato della famiglia Flintstone, “Gli antenati”. La primitivistica e allusiva vestizione degli altri personaggi ha poi in Sabina, la promessa sposa di Adriano, una nevrotica cantante dai capelli rosso-violacei ritti in testa, appena uscita gasata da un concerto rock, mentre l’imperatore Adriano è impersonato en-travestì da Marina Comparato in improbabili vesti bluastre para-militari.
Emirena, figlia di Osroa, contesa dall’imperatore Adriano e dal generale Farnaspe, è invece ricoperta da un groviglio di piume, forse a simboleggiare un povero volatile chiuso in gabbia, ma più somigliante, nella sua grossezza, al personaggio di Walt Disney, Compar Orso, rotolatosi nel miele o mostarda, e ricoperto di ogni ben di Dio. L’ambientazione scenico-teatrale nella quale i personaggi si muovono con sorprendente agilità, dato l’ingombro sul palcoscenico di rovine pseudo-antiche, mucchi di teschi, sedili da accampamento zingaresco, panoplie, etc., etc., è scura e tetra e tende quindi ad evocare il day-after che segue all’immane devastazione di una guerra. In definitiva, quindi, il giovane regista spagnolo Ignacio Garcia sembra voler invitare il pubblico del “suo” Adriano in Siria a leggere insieme a lui il dramma di Metastasio intonato da Pergolesi come il tempo della riscoperta degli affetti senza più divisioni di censo e di classe, incombendo minacciosa la waste land di un altro terribile “ground zero”. Non si può che essere d’accordo con Giuseppe Pennisi secondo il quale il regista e la scenografa hanno dato del dramma di Metastasio nell’intonazione di Pergolesi: «(una) lettura, per così dire, “bellica”. […] Siamo in un campo dove c’è stata una cruenta battaglia, tra colonne semi-crollate, teschi e uccellacci in una scena essenzialmente buia. I costumi ci portano ad una Siria primitiva (dove i Parti vestono pelli di animali ed i romani acconciature più adatte agli Indios latino-americani). Tale lettura dell’azione scenica […] lascia perplessi per due ordini di motivi. In primo luogo nella partitura di Pergolesi, mancano gli echi guerreschi: il giovane compositore era chiaramente molto più interessato all’intrigo amoroso delle due coppie al centro del dramma che all’atmosfera di contorno».
Ma se Giovan Battista Pergolesi intonò i versi di Metastasio senza alcun furor bellandi, l’ispirazione – per i significati e il senso da rivestire con la musica – non poteva che dipendere dal dramma composto dal Poeta Cesareo nel 1732 a Vienna.
Oltre a suggerire post festum, come fa Pennisi: «Ove si fosse voluto ricostruire (in qualche modo) lo spettacolo del 1734 l’ambientazione sarebbe dovuta essere o settecentesca (come provano le litografie dell’epoca che accompagnano le edizioni a stampa dei lavori del Metastasio) oppure chiaramente moderna», sarebbe stato necessario leggere senza pregiudizi sia il dramma del poeta romano che, in particolare, le sue lettere riguardanti Adriano in Siria. Sarebbe stato anche opportuno ispirarsi alla straordinaria raccolta di incisioni e rami nelle edizioni Hérissant e Zatta delle Opere di Metastasio, alla scenografia teatrale dei Bibiena, a quella dei Re e Galliari, per citare alcuni esempi famosi e illustri, e, per gli abiti di scena dei cantanti anche ai disegni dello Zanetti e di Pier Leone Ghezzi. Il dramma, infatti, è tra quelli nei quali Metastasio dichiara non soltanto le sue intenzioni sui caratteri dei personaggi ma, attraverso questi, fornisce anche spunti assai interessanti di regia. Ed il poeta, per di più, tornerà ancora su Adriano in Siria venti anni dopo, egli stesso modificandone l’assetto drammaturgico, allorquando Farinelli a Madrid gli chiederà di rappresentare l’opera alla corte dei re di Spagna. È peraltro sufficiente e congruo all’intonazione pergolesiana citare il passo della lettera di Metastasio a Giuseppe Riva, 20 Settembre 1732, nella quale il poeta mostra come e per quale fine ha costruito il carattere di Sabina e le ragioni per le quali egli rigetta qualsiasi interpretazione del personaggio in cui la gelosia, l’alterigia, l’intolleranza e la violenza prendano il sopravvento sulla qualità primaria: la generosità.
«Osservate che, qualunque volta, per non fingerla insensibile, io la faccia scaldare su i torti che riceve, faccio che immediatamente rifletta e si corregga, ritornando alla sua prudenza e tolleranza. Qualità che fanno strada, anzi sono necessarie, perché possano gli spettatori crederla capace della straordinaria generosità che usa nello scioglimento dell’opera. Qualità che mi hanno fatto rigettare, come distruttive delle medesime, l’espediente di farla partire per motivo di gelosia e di proprio consiglio, […] poiché, per ridursi a tale risoluzione, bisogna supporla non solo gelosa, ma altiera, intollerante e violenta; il che io non voglio, né debbo.»
Non sembra proprio che la giovane regia si sia attenuta non soltanto alla precisa indicazione dell’autore del dramma ma neppure a quella del musicista, attento creatore di atmosfere ricche di pathos affettivo e sentimentale, preferendo alla testualità del poeta e del musicista quella di una Sabina scenicamente decisa, reattiva e aggressiva, quasi prodotto “naturale” dell’atmosfera post-bellica artificiosamente e surrettiziamente creata, aderendo al cliché della difesa femminil-femminista dei diritti della donna, compresi quelli dell’infelice rivale Emirena.
Ma a questo punto sia Metastasio che Pergolesi si allontanano… frastornati, e non già perché non capissero le ragioni dell’essere femminile nelle società post-feudali.
In altri termini, una giusta e appropriata arbitrarietà nell’ interpretazione registica e scenografica sarebbe dovuta scaturire, pur anche attualizzando il dramma settecentesco e d’argomento romano, dall’attenta lettura dell’ante-testo, e la sola possibilità concessa per percorrere questa strada sarebbe stata quella di non accontentarsi di una lettura in presa diretta, diciamo naïf, di Adriano in Siria, ma ricorrendo ai precisi rinvii di senso e significato artistico-esistenziale-politici espressi dall’opera di Metastasio e Pergolesi. Si sarebbe così potuto evitare di farsi trascinare quasi fuori strada, fornendo e fabbricando ex-novo letture interpretative quasi affatto sorprendenti, alla stregua di quel teatro del “meraviglioso”, con l’intervento del deus ex-machina, che fu il teatro musicale del barocco, prima della riforma di Zeno e di Metastasio. Ed infatti, forse senza saperlo – quasi ritrovandolo nell’inconscio o nel DNA della tradizione barocca spagnola – il regista Ignacio Garcia ha fatto volare per tutta la sua lunghezza da un capo all’altro del teatro, all’inizio e alla fine dello spettacolo, un falcone di nome Aron a simboleggiare la grandezza di Roma – (ma quale: la “bellica” del nient’affatto terribile Adriano disegnato da Metastasio come perennemente irresoluto o piuttosto quella venatoria per rendere omaggio ad un altro imperatore, Federico II di Svevia, nato a Jesi sul finire del XII secolo, e ritratto nel suo trattato sulla caccia con questo volatile?) – soltanto dopo, però, avere concluso l’offerta di senso generale del dramma quale conquista dell’amore e rifiuto della guerra facendo cantare in coro tutti i protagonisti su mucchi di teschi sparsi qua e là sulla scena. Era forse questa la “bianca pietra” nel coro finale di Metastasio: «S’oda, Augusto, infin su l’etra/ Il tuo nome ognor così;/ E da noi con bianca pietra (sottolineatura ns.)/ Sia segnato il fausto dì»?
Eppure per la comprensione e decifrazione dei rinvii esistenziali, personali e politici sarebbe stato assai utile leggere la lettera di Metastasio a Marianna Benti Bulgarelli in cui il poeta fa intravedere nel carattere dubbioso di Adriano proprio se stesso, mentre quasi segnala alla “Romanina” di aspettarsi da lei un comportamento alla Sabina forse perché quella Marianna d’Althann, un tempo favorita dell’imperatore Carlo VI, è, non tanto segretamente, ora desiderosa di un rapporto meno ufficiale con il poeta che ella stessa ha aiutato a venire a Vienna.
«Leggete la terza scena dell’atto terzo del mio Adriano: osservate il carattere che fa l’imperatore di se medesimo, e vedrete il mio. […] Se discorrendo ordinatamente, e saviamente riflettendo, l’anima mia è convinta che quest’eccesso di dubbiezze sono i vizi incomodi, tormentosi, inutili, anzi d’impaccio all’operare, perché dunque non se ne spoglia? Perché non eseguisce le risoluzioni tante volte prese di non voler più dubitare? […] è assai chiaro, che gli uomini per lo più non operano per ragione, ma per impulso meccanico: adattando poi con l’ingegno le ragioni alle opere, non operano a tenore delle ragioni; onde chi ha più ingegno comparisce più ragionevole nell’operare. Se non fosse così, tutti coloro che pensan bene opererebbero bene; e noi vediamo per lo più il contrario.»
A Metastasio, solo a Vienna e in attesa del consiglio dell’amica Marianna Bulgarelli, la cantante che lo ha avviato alla carriera del teatro musicale, corrisponde la solitudine esistenziale e politica dell’imperatore Carlo VI, ancora privo del riconoscimento indispensabile per tenere a bada il revanscismo dei Borbone, la rivalità prussiana in Germania e le insidie del ricorrente pericolo ottomano. Eppure sia nei confronti di Adriano, morale raffigurazione dell’imperatore, sia verso se stesso, il valore positivo alla fine emergente e dominante è quello di produrre l’altrui felicità, non la propria particolare. Metastasio non tratteggia quindi in Adriano in Siria i caratteri della asburgica clemenza e giustizia, virtù-simboli dell’Impero nel Settecento pressoché interamente costruiti dal poeta venuto da Roma, bensì quelli del conseguimento della felicità dei sudditi governati dal potere dell’ancien régime.
Tutt’affatto diversa rispetto al testo metastasiano e pergolesiano l’interpretrazione consegnata al dramma dalla direzione del Garcia.
Specialmente nel finale si avverte l’aspetto paradossale delle stesse scelte registiche, non già perché le decisioni ultime dell’imperatore Adriano: – perdonare Osroa che ha cercato di ucciderlo ridandogli il regno, consentire l’unione tra Emirena e Farnaspe, mantenere i patti di matrimonio con Sabina –, non siano la raffigurazione del Cesare “magnanimo”, capace cioè di donare felicità al genere umano, nient’affatto bellicoso, in grado di rinunciare ad ogni tentazione autoritaria e cruenta da autocrate assoluto – leit-motiv questo di pressoché tutti i drammi di Metastasio nel decennio 1730-1740 – quanto piuttosto perché l’imperiale magnanimità non scaturisce da un retorico “no” alla guerra, bensì essa è una conquista dell’irresoluto Adriano come scelta per la felicità, in forza delle virtù e valori di lealtà e giustizia che faticosamente riesce a imporre anche a se stesso e a far trionfare. Rappresentare invece sulla scena Adriano e i suoi comprimari quali deliranti personaggi che inneggiano all’imperatore soltanto perché sono salvi e non sono quindi ridotti a ‘teschi’, rasenta il grottesco e sfiora quel senso del comico, del tutto estraneo alla drammaturgia del Poeta Cesareo e pur sempre in agguato, a dispetto della musica di Pergolesi e della competente e sicura direzione di Ottavio Dantone.
Peraltro, l’avere tagliato alcune arie e molti recitativi – non essendo comunque stato riportato nel libretto di sala il testo poetico impiegato da Pergolesi nella rappresentazione del 1734 – è un’altra scelta di questo allestimento che lascia perplessi in particolare laddove nella scena 9 dell’Atto II la caratterizzazione forte della giustizia che Adriano rivendica alla tradizione e al diritto romano e che declama dinanzi a Osroa è stata inopinatamente cancellata:
«Siam del giusto custodi. Al giusto serve/ Chi compagni ci vuol, non serve a noi:/ Ma la giustizia è tirannia per voi».
Così quindi come sarebbe rilevante sapere se anche il libretto adottato al San Bartolomeo da Pergolesi presenta la lacuna di questo recitativo, sarebbe altrettanto se non più importante conoscere le ragioni per le quali si è voluto accreditare nelle note di presentazione storica di questo allestimento l’insuccesso per l’Adriano in Siria a Napoli nel 1734, affidandosi esclusivamente alle note storiche del Monson, mentre invece l’anno dopo L’Olimpiade al Teatro Tor di Nona di Roma sarebbe stata accolta con grande favore. In verità, la storiografia propende quasi con certezza per il contrario: grande favore per Adriano in Siria a Napoli ed invece insuccesso clamoroso al Tor di Nona, come, tra gli altri, è testimoniato nel 1735 da un autorevole musicista, amico ed ammiratore di Pergolesi, Egidio Romualdo Duni, presente a Roma, dopo la rappresentazione de L’Olimpiade:
«O mio amico, o maestro mio, costoro che ti disapprovano, non ti conoscono, né compresero il valore e il merito grande della tua musica» (Andrea D’Angeli, C. Goldoni e E.R. Duni, in “La cronaca musicale”, Pesaro, 1912, n.12. p. 233), alla quale seguì, confermando l’immeritato insuccesso presso il Tor di Nona, un’altra consolatoria manifestazione sempre del Duni:
«Vi sono troppe finezze al di sopra del volgo nella vostra opera. Queste bellezze passeranno incomprese e voi non riuscirete punto. La mia opera, ve lo confesso, non sarà paragonabile alla vostra, ma più semplice, sarà felice». (Alfred Loewenberg, Annals of Opera, 1579-1940, London, John Calder, 1978, p. 172).
Del resto, proprio il Duni e al Teatro Tor di Nona, nel Carnevale del 1736, faceva mettere in scena la sua intonazione dell’Adriano in Siria, un anno dopo quella del Pergolesi al San Bartolomeo, come a cavalcare l’onda di un più che probabile successo ottenuto da questo dramma piuttosto che da L’Olimpiade, su cui il compositore di Matera si sarebbe cimentato a Parma soltanto venti anni dopo, nel 1755.
La rilevanza assunta dalla questione Adriano in Siria-L’Olimpiade di Pergolesi non è di poco conto, considerando i numerosi travasi musicali compiuti dal compositore dall’una all’altra opera. La spiegazione finora offerta che la fretta nel soddisfare il committente e protettore duca di Maddaloni per l’appuntamento con il Teatro Tor di Nona avrebbe indotto Pergolesi a trasferire melodie e cospicui fraseggi musicali ne L’Olimpiade non riesce a determinare una volta per sempre l’identità di scrittura sia del primo dramma sia del secondo; soprattutto la considerazione che Adriano in Siria nell’edizione critica del Monson segua alcune pedisseque fioriture belcantistiche e la trascrizione di un’orchestrazione approssimativa, mentre più organica, completa in ogni sua componente musicale risulta essere L’Olimpiade, nonostante il tempo limitato a disposizione di Pergolesi. Dopo la rappresentazione de L’Olimpiade, con la direzione sempre di Ottavio Dantone, nel 2002, II Edizione del Festival Pergolesi Spontini, sarebbe stato quanto meno apprezzabile che l’attuale nuovo allestimento di Adriano in Siria 2007 offrisse nel libretto di sala, od anche in studi pubblicati in preparazione dello spettacolo, un’accurata indagine storico-musicale che dal confronto tra le due partiture pergolesiane, finalmente, facesse luce sulle relazioni e trasferimenti tra parola-poesia e musica in ciascuna delle due opere, in particolare riguardo ai temi-contenuti di drammi sotto molti aspetti dotati di autonoma valenza e senso estetico-comunicativo.
Settembre 2007 |
Mario Valente |