Arie Olimpiche
Stagione di Musica da
Camera 2012-2013
Auditorium Parco della
Musica – Roma – Sala Santa Cecilia
Venerdì 26 Ottobre 2012 –
ore 20,30
Sotto il titolo Arie
Olimpiche, reduce dai successi ottenuti con
l’Orchestra Barocca di Venezia in occasione delle
Olimpiadi di Londra 2010, Andrea Marcon ha diretto al
Parco della Musica – Sala Santa Cecilia – le musiche
composte rispettivamente da Antonio Vivaldi, J.A. Hasse,
Giovanni Paisiello, Domenico Cimarosa, Luigi Cherubini
sul celeberrimo dramma di Pietro Metastasio
L’Olimpiade (Vienna, 28 agosto 1733).
A questa prima parte è
seguito l’ascolto delle intonazioni dello stesso testo
poetico di Leonardo Leo, Niccolò Piccinni, Niccolò
Jommelli, Baldassare Galuppi, e Florian Leopold Gassmann.
Andrea Marcon è da tempo
tra i migliori interpreti della cosiddetta musica
barocca e già con la Venice Baroque Orchestra nel 2000 e
2001 alla Scuola Grande di S. Giovanni Evangelista e al
rinato Teatro Malibran di Venezia (il mitico teatro dei
Grimani, S. Giovanni Grisostomo), per conto del Com.to
Naz.le per le Celebrazioni di Pietro Metastasio, ha
diretto rispettivamente l’intero dramma per musica di
Pietro Metastasio, Siroe, nell’intonazione
di G.F. Haendel, e L’Olimpiade con le
musiche di Domenico Cimarosa che in quest’occasione
ceciliana sono state riproposte con la sinfonia
introduttiva, l’Allegro con spirito.
Successivamente, Andrea
Marcon, alla testa sempre della sua orchestra, diresse
anche le musiche di Galuppi su L’Olimpiade di
Metastasio a Venezia, in occasione della ricorrenza
della nascita del “Buranello”, il cui estro ritmico e
armonico, appassionato, è stato accolto con particolare
favore dagli spettatori nel Concerto all’Auditorium del
Parco della Musica.
Nella Sala Santa Cecilia,
per la Stagione di Musica da Camera 2012-2013, Marcon si
è avvalso del soprano andaluso Ruth Rosique, dotata di
una bellissima presenza oltre che di un registro vocale
a prova di quegli spazi capaci di accogliere 2.700
spettatori e di volumi sonori di orchestre
otto-novecentesche, cariche di organici ben più
consistenti di quelli previsti, oggi, per la musica
barocca, benché – occorre, qui sottolinearlo –, nel
Settecento, quando era necessario, il numero dei fiati,
degli archi e di altri strumenti aumentava
sensibilmente, mentre ci è parso che, purtroppo, la
compagine orchestrale, ridotta, come è stata, quasi agli
elementi essenziali, abbia sofferto, non poco, la
possibilità di restituire la virtuosità sonora e
compositiva dei musicisti del Secolo dei Lumi.
L’esibizione del
mezzo-soprano Josè Maria Lo Monaco, pur tuttavia, ha
ottenuto ampi consensi per l’agilità di canto che,
ancora una volta, ha rifulso dinanzi al pubblico
esigente, coinvolto dall’Orchestra Barocca di Venezia a
seguire i mutamenti delle stagioni musicali della prima
metà del XVIII secolo (Vivaldi, Hasse, Leo, Galuppi)
fino a quelle della seconda ed ultima parte del secolo
dei Lumi (Piccinni, Jommelli, Cimarosa, Paisiello, F.L.
Gassmann), stilisticamente e quasi idealmente concluse
con l’intonazione di Luigi Cherubini (di rara
esecuzione) con la struggente aria di Megacle, rivolta
all’amico Licida, Se cerca, se dice: “L’amico dov’è”.
Certamente anche con lo
sforzo culturale offerto dalla presentazione della
poesia per il teatro musicale di Pietro Metastasio,
leggibile nel libretto di sala curato da Laura
Pietrantoni, è stato lasciato al pubblico appassionato e
competente della Sala di Santa Cecilia il compito di
colmare l’inevitabile soluzione di continuità narrativa,
derivante da un Concerto di Arie tratte e separate da
quell’opera organica e da quel capolavoro – (così
giudicato da Walter Binni, tra i molti importanti
studiosi del Poeta Cesareo) – che è L’Olimpiade.
All’assenza dei necessari recitativi per la comprensione
del plot metastasiano supplisce in qualche modo
una sorta di riassunto articolato, da leggere
preventivamente, proposto dalla Pietrantoni, al fine di
collegare tra loro ogni singolo brano musicale dei
diversi compositori e le Arie, così da conferire allo
svilupparsi dei diversi “pezzi” interpretati una certa
unitarietà narrativo-espositiva.
Per queste operazioni
forse ci si potrebbe in futuro avvalere, in modo più
profittevole per il pubblico, dell’illustre esperienza
storica cui diede vita, tra gli altri, il grande G.F.
Haendel a Londra (Covent Garden, 13 aprile 1737) che,
nel pasticcio di Didone abbandonata – il
primo dramma di Metastasio che a Napoli nel 1724 ne
decretò la fortuna quale protagonista assoluto del
genere poetico-musicale – fece intervenire per ogni atto
le musiche di Leo Vinci, di Orlandini, Hasse, e Leo, con
arrangiamenti composti dal Sassone, oltre a parti del
libretto che egli stesso intonò.
Non è che si debba
ripetere pedissequamente il pasticcio haendeliano
– cosa che ascoltare rieseguito oggi, sarebbe una
proposta preziosa, nient’affatto da buttar via – ma
costruire un’ipotesi pluri-musicale su altri tra i
libretti del più famoso poeta per il teatro musicale del
Settecento potrebbe condurre ad una rilettura critica e
ad una riunificazione delle continuità/discontinuità
estetico-stilistiche, utile, al tempo stesso, per la
comprensione della storia musicale e per la conoscenza
della poesia che ispirò queste composizioni.
Un altro non indifferente
risultato positivo deriverebbe dalla rara opportunità di
ascoltare, nelle maggiori e più rappresentative sedi
italiane della Lirica e dei Concerti, un’intera opera
del Teatro musicale del Settecento, e, a tale riguardo,
perché non cimentarsi, dopo l’ascolto della quasi
“inflazionata” Clemenza di Tito, per “colpa” di
W.A. Mozart, ad esempio, con l’Ezio, con
Semiramide o con il Demofoonte di Pietro
Metastasio, eseguibili, secondo le modalità del
pasticcio, con le musiche di alcuni tra i
compositori che più amarono questi drammi e che resero
più artisticamente significative le loro intonazioni? Ne
risulterebbe certamente – ci piace pensarlo –
un’importante riscoperta integrale ed unitaria della
poesia del Poeta Cesareo e dei suoi compositori.
In ultimo, occorre fare
qualche domanda e/o osservazione sul libretto di sala
curato da Laura Pietrantoni con sapiente attenzione.
Perché, ad esempio, la curatrice riguardo alle note
biografiche su Metastasio ha impiegato una vita scritta
da Romualdo Zotti nel 1813, ricavata da quella
precedente – fine secolo XVIII –, di Carlo Cristini,
avvocato, nella quale emergono inesattezze storiche come
quella di considerare Leopoldo, fratello del futuro
Poeta Cesareo, il primogenito di Felice Trapassi
e Francesca Polastri (sic!) – il vero cognome
della madre dei due fratelli fu invece Galastri – mentre
è noto da quasi centocinquanta anni, grazie agli atti di
nascita rinvenuti nel Registro dell’Archivio delle anime
a S. Lorenzo in Damaso da Francesco Labruzzi e da questi
pubblicati nel dicembre 1872 su La Libertà, che
Pietro nacque a Roma il 3 gennaio del 1698 e Leopoldo
nel novembre del 1699, e che, inoltre, la condizione
sociale della famiglia Trapassi, definita come
benestante, può meglio attagliarsi a ciò che oggi
chiameremmo come appartenenza alla piccola borghesia dei
commercianti al dettaglio? Del resto, pressoché tutti i
manuali di Storia della Letteratura italiana, da quella
di Luigi Russo al Momigliano, dal Binni al Fubini, dal
Sapegno all’Asor-Rosa fino a quella di Giulio Ferroni,
riportano le informazioni esatte ed aggiornate riguardo
alla biografia di Pietro Metastasio.
La cosiddetta biografia di
Romualdo Zotti-Cristini è piena invece, quasi
all’inverosimile, di altre numerose perle
aneddotiche che, con il linguaggio giornalistico dei
nostri tempi, chiameremmo favole metropolitane, se non
fosse che queste possono farci conoscere la mitografia
dell’epoca, poco interessata, forse, alla ricostruzione
dei fatti e della vera realtà ambientale e delle vite
dei personaggi, quanto oggi, per contro, risultano
sconsolatamente desuete, folcloristiche e incomplete.
Infine, stupisce alquanto
che il libretto di sala abbia offerto come effigie di
Pietro Metastasio uno dei soliti ritratti di maniera,
ovvero di fantasia, propri delle abitudini di stampa di
tante sbrigative e popolari edizioni settecentesche
delle Opere del nostro, specie, in questo caso,
dell’editore veneziano Bettinelli con il quale lo stesso
Metastasio, già negli anni Trenta del Settecento, ebbe
molto e tanto a lamentarsi per le inesattezze e
imprecisioni anche a proposito della sua stessa effigie,
improvvidamente posta sull’antiporta dei volumi dei suoi
drammi, nonostante il Poeta Cesareo avesse fornito egli
stesso migliori e più adeguate soluzioni.
Non sarebbe stato meglio
prendere l’immagine di Metastasio dal busto scolpito da
Giuseppe Ceracchi, per volontà del cardinale Consalvi
già al Pantheon tra i busti degli Italiani più illustri,
ed oggi nella Protomoteca del Campidoglio?
Giuseppe Ceracchi aveva conosciuto personalmente
Metastasio a Vienna negli anni Settanta, e si poteva
contare perciò quanto meno su un’immagine ricavata da
un’opera dotata di pregevole fattura artistica, e
verosimile.