L’opera di profondo
rinnovamento prodotta da Pietro Metastasio nella
tradizione dell’azione teatrale sacra, a seguito e, in
certa misura, in modo conforme al rinnovamento del
melodramma, si fonda sul definitivo abbandono della
precedente esperienza del Barocco, il cui teatro
musicale aveva visto l’affermazione del meraviglioso e
di sorprendenti eventi irreali, così come questo era
andato affermandosi per tutto il Seicento, sino al
termine di tale egemonia, culminata e risolta con la
rappresentazione de La Resurrezione di G.F.
Haendel nel 1708 a Roma, a Palazzo Bonelli, su ordine
del marchese Francesco Maria Ruspoli, di lì a poco
principe di Cerveteri.
A fronte della
spettacolarità di tipo barocco: l’apparizione sulla
scena di angeli e demoni, di santi e profeti, figure
simbolico-allegoriche chiamate di volta in volta a
suscitare interventi extra-naturali, la prospettiva di
terribili eterne punizioni dei peccatori, e gli esempi
salvifici per ottenere la Grazia e la Verità,
nell’oratorio di Pietro Metastasio la spiritualità
religiosa del Cristianesimo viene rappresentata mediante
il recupero testuale ed esegetico-ermeneutico delle
Sacre Scritture, dalle quali il poeta ricava e
costruisce l’intreccio drammatico.
La libertà narrativa
esercitata rielaborando le storie tratte dall’Antico e
dal Nuovo Testamento oltre a fornire di per sé la
verosimiglianza già perseguita e prodotta dalla poetica
metastasiana nel melodramma, in virtù del manifestarsi
nei Sacri testi della Verità tende a proporsi come una
sorta di pedagogia etico-religiosa per il destinatario
dell’oratorio e per ogni credente.
Tale libera
rielaborazione non può che essere indipendente dalla
funzione liturgica della Messa nella quale i sacri
testi, declamati, cantati o recitati, accompagnano
devotamente l’approssimarsi della condivisione
eucaristica dei fedeli.
Cosa non ultima nè
secondaria, l’oratorio metastasiano adotta
esclusivamente la lingua e la poesia italiana,
intendendo con ciò gettare un ponte comunicativo con il
più vasto pubblico possibile.
Ma se è vero come è vero
che già prima dell’azione teatrale sacra di Metastasio,
altri illustri poeti avevano contribuito all’autonomia
della forma oratoriale dalla serialità del Barocco e
dalle funzioni liturgiche (come ad esempio da parte di
Apostolo Zeno e di Pietro Pariati, di Carlo Sigismondo
Capece e di Silvio Stampiglia), consentendo così a
grandi compositori come Alessandro Scarlatti, Leo Vinci
e G.F. Haendel, fra molti altri, di esaltare con le loro
musiche testi che esprimevano una verosimile
spiritualità della religione cristiana, si può affermare
che soltanto con l’oratorio di Metastasio l’intreccio
narrativo e il suo stretto rapporto con la scena
teatrale e la musica, mediante l’organico alternarsi di
arie e recitativi, conferisce ai personaggi della
tradizione biblica delineati le possibilità di scelta
attribuite all’essere umano nella sua integralità
psicologica ed esistenziale.
Tale attualizzazione
umanistica del religioso e del sacro raggiunge il suo
akmé connettendo l’exemplum veritatis
tratto dai protagonisti della Sacra Scrittura come
figure o typi di situazioni e bene individuabili
ruoli storico-politici della realtà del tempo.
La rilevanza della storia
sacra come pedagogia etico-religiosa destinata ai
credenti, e la figuralità simbolico-politica dei
personaggi biblici riconducibile ai protagonisti della
storia del XVIII secolo, sono perciò gli elementi
costitutivi della fortuna dell’oratorio metastasiano e
della sua popolarità in particolare a Roma per tutto il
Settecento (ed oltre).
A tale fortuna contribuì
potentemente l’esperienza fondamentale della
Congregazione dell’Oratorio di San Filippo Neri di Santa
Maria in Vallicella e dell’annesso vicino Oratorio
(progettato e fatto costruire da Francesco Borromini su
ordine dei R.R.PP. nella seconda metà del Seicento),
sia nella qualità di “inventori” dell’azione sacra
teatrale per la pratica devozionale dei credenti tra
Cinque e Seicento, trasformatasi via via nei secoli
successivi in un vero e proprio spettacolo religioso
che, grazie alla Congregazione, si affermò con un
successo paragonabile a quello del coevo melodramma nei
teatri pubblici e privati romani.
A tale riguardo è
sufficiente ricordare che, nel corso del Settecento, in
particolare, fino alla crisi di fine secolo del papato,
con la proclamazione dell’effimera Repubblica romana, a
seguito dell’ingresso delle armate napoleoniche nella
città eterna, i prefetti della musica della
Congregazione di San Filippo Neri svolsero la funzione
di veri e propri committenti e impresari di nuove
importanti intonazioni dei libretti oratoriali di Pietro
Metastasio nella città eterna, così che furono messi a
stipendio come maestri di cappella dell’Oratorio
secolare e in Santa Maria in Vallicella famosi
compositori come, fra gli altri, Niccolò Jommelli,
Antonio Sacchini, Pasquale Anfossi, e Francesco
Morlacchi, i quali, peraltro, furono tra i più assidui
nel frequentare la poesia per il teatro musicale di
Metastasio ed intonarono in gran numero sia i suoi
drammi sia gli oratori.
Il significato e il ruolo
popolare raggiunto dalla produzione delle azioni
teatrali sacre proposta incessantemente alla città
eterna dai prefetti della musica della Congregazione
consentiva che l’esecuzione dello spettacolo di
argomento sacro avvenisse non soltanto nel periodo delle
festività liturgico-religiose più importanti per il
mondo cattolico, a Natale e a Pasqua, ma anche in ogni
momento dell’anno in occasione di svariate feste
religiose, oltre che durante il Carnevale.
Le rappresentazioni degli
oratori con l’organizzazione impresariale dei Filippini
copriva ogni tipo di spesa, dalla falegnameria agli
artigiani per allestire le scene all’impiego degli
orchestrali, dalla stampa dei libretti a quella delle
copie della partitura, dai cantanti al compositore fino
al direttore dell’orchestra. Questa impresa artistica
sfociava necessariamente con il fare ospitare le
rappresentazioni dell’oratorio non soltanto nella chiesa
della Congregazione ma in moltissimi altri luoghi di
culto della Roma del tempo, nei conservatori di musica
ed anche nei palazzi della nobiltà romana.
Pietro Metastasio era
stato alunno alla scuola primaria dei padri
dell’Oratorio di San Filippo Neri, per ordine del
cardinale Pietro Ottoboni che lo aveva tenuto a
battesimo nella chiesa di San Lorenzo in Damaso al
Palazzo della Cancelleria.
Ma soltanto dopo il
trionfo a Napoli nel 1724 del suo primo dramma per
musica, Didone abbandonata, e il ritorno
definitivo nel 1727 a Roma da Venezia (con i grandi
successi in laguna della replica della Didone con
musiche di T. Albinoni, e del Siroe con musiche
del Vinci), il suo padrino di battesimo, l’Ottoboni,
riesce a legittimare il ruolo del figlioccio come Poeta
della città eterna.
Il cardinale-nepote di
papa Alessandro VIII, mecenate delle arti nella Roma di
Clemente XI, Benedetto XIII e Clemente XII, recupera
alla gloria dell’Accademia dell’Arcadia Pietro
Metastasio, a distanza di ben tre lustri dall’uscita,
insieme a GianVincenzo Gravina, nel 1712 dal sodalizio
letterario, e a meno di un decennio dal “fortunato”
esilio a Napoli, un anno dopo la morte del maestro nel
1718.
L’Ottoboni commissiona a
Metastasio, con il suo nome in Arcadia di Artino Corasio,
il «sacro componimento drammatico»
Per la festività del SS. Natale, eseguito
ufficialmente il 2 Gennaio 1728 nel teatro juvarriano
nel Palazzo della Cancelleria, con le musiche, oggi
perdute, di G.B. Costanzi (mentre il libretto, stampato
da Antonio de’ Rossi, reca la data del 1727, riferendosi
alle prove del 24 e 26 Dicembre, presenti le principesse
di Fiano, parenti del cardinale), alla presenza di
Violante di Baviera, granduchessa di Toscana, per
festeggiare l’annuale adunanza dell’Accademia
dell’Arcadia e del suo protettore, Gesù bambino.
Sarà la prima e l’ultima
volta che Metastasio sceglierà la nascita del Salvatore
come nucleo drammatico del suo oratorio, così come, dopo
questo, non comporrà altri oratori per le scene romane,
fatta eccezione la composizione a Roma de La passione
di Gesù Cristo, per ordine di Carlo VI d’Asburgo,
oratorio peraltro destinato a precedere il suo
trasferimento a Vienna, Poeta Cesareo di quella corte,
per essere rappresentato lì dinanzi al Santo Sepolcro
nella Hofkapelle con il cattolicissimo imperatore
in preghiera nella Pasqua del 1730.
Per la festività del
SS Natale
nonostante il significato attribuitogli dall’Ottoboni
come rientro ufficiale e, diremmo oggi, in pompa magna,
dell’allievo del Gravina nei ranghi di quell’Accademia
dell’Arcadia espressione della cultura letteraria
dominante a Roma, svolge nei fatti e nella stessa
orditura poetica del giovane autore una funzione di
raccordo con Vienna e il Sacro Romano Impero Germanico
(e quindi con la futura “carriera” di Pietro
Metastasio).
Quanto ai fatti, papa
Benedetto XIII, il domenicano Pierfrancesco Orsini, noto
per la sua disarmante innocenza e bontà d’animo, per la
sua dedizione agli studi teologici e biblici, ha
intrapreso decisamente il riavvicinamento all’Impero
degli Asburgo consentendo a Carlo VI il ripristino del
Tribunale della Monarchia con l’esercizio annesso
della giurisdizione parziale sui beni ecclesiastici, sui
titoli e nomine dei vescovi da parte imperiale, grazie
all’abilità diplomatica del cardinale Niccolò Coscia,
suo fiduciario, mettendo così pressoché fine alle
controversie con il papato iniziate sotto Clemente XI a
causa della sua politica filo-francese.
Viene rappresentata e
come nella Festività del SS. Natale questa
determinata congiuntura della guida pastorale e politica
di Benedetto XIII?
Diversamente dai
personaggi dell’Antico e Nuovo Testamento, protagonisti
dotati, nei sette oratori del periodo viennese, della
psicologia e dei caratteri esistenziali di un’umanità
tormentata, qui gli attori/interlocutori assumono le
trionfanti sembianze ed astratte delle Virtù teologali:
la Fede, la Speranza, l’Amor divino,
virtù introdotte dal Genio celeste (memoria
questo dell’usato ed abusato macchinismo barocco, visto
che Metastasio immagina il suo apparire in scena
«corteggiato da altri Geni, sopra macchina nuvolosa che
rappresenta una reggia trasparente»).
Il Genio celeste,
dopo avere annunciato la nascita in terra del Figlio di
Dio pronuncia una vera e propria esaltazione della
raggiunta universale concordia che subito appare come un
rinvio alle promesse di riappacificazione tra Benedetto
XIII e Carlo VI:
«Pace, pace, o mortali;
eccone il pegno./ A sostener la pena/ Del grave error,
d’umanità velato/ L’eterno Figlio, il re de’ regi è
nato./ A sì lieta novella/ Esulti il mondo intero; e,
più che altrove,/ Il giubilo e la speme/ Passi di voi
nel seno,/ Che di regni e d’imperi,/ Immagini di lui,
reggete il freno./ Tutto lice sperar. Vedrà la terra/ In
bel nodo di pace/ Congiunti i sogli, i sudditi fedeli,/
I talami reali/ Ricchi di prole. E che non fia concesso/
Da chi per voi sacrificò se stesso?
»
A questo recitativo con
l’annuncio della salvezza e della pace per la nascita di
Gesù segue l’aria nella quale la figura del pellegrino e
del nocchiero, cui in terra è affidato il compito di
spargere la Buona Novella, si sposa con la riscoperta di
quell’innocenza a un tempo metafora cara all’Arcadia e
soprattutto espressione dell’animo e della pia
religiosità di Benedetto XIII:
«Senza tema in suo
cammino/ Di perigli e di procelle,/ Il nocchiero, il
pellegrino/ Passi i monti e varchi il mar.// Siano
amiche a voi le stelle,/ Siano a voi felici i giorni:/ E
dal Ciel qua giù ritorni/ L’innocenza ad albergar.
»
Metastasio, alias
Artino Corasio arcade, attende sì al compito affidatogli
dal padrino di battesimo, ma, nel celebrare la sempre
potente filo-gesuita e filo-francese Accademia
dell’Arcadia, al tempo stesso coglie l’opportunità di
rendere esplicito omaggio e al magistero pastorale
erga omnes potentes et reges in terra del papa
regnante, e implicitamente al cardinale Coscia che, come
già prima osservato, sta concludendo le trattative
diplomatiche con l’Asburgo, e che, come segretario di
stato di Benedetto XIII, non solo ha voce in capitolo
nella vita artistica e musicale di Roma (Metastasio
dedicherà l’Ezio al Coscia e farà musicare il
melodramma dall’Auletta, protetto del cardinale), ma è
stato anche fautore dell’invito a Violante di Baviera,
granduchessa di Toscana, alla rappresentazione
dell’oratorio al palazzo della Cancelleria. Sono infatti
aperte le trattative in vista del passaggio di Firenze e
della Toscana, estintasi ormai la dinastia medicea, a
case regnanti europee, e la moglie di Ferdinando de’
Medici è imparentata con gli Asburgo…
Proprio in quel 1727,
Benedetto XIII aveva lasciato Roma alle “cure” del
cardinale Coscia (a dir poco, non gradite ai Romani per
il nepotismo e la sua ansia di arricchimento) per
risiedere nell’amata Benevento e dedicarsi completamente
agli studi, alla cura delle chiese della diocesi e
all’assistenza dei poveri e dei diseredati.
Al pontefice, rientrato a
Roma in quel Natale, Artino Corasio – quasi a fugare
ogni perplessità dei Romani e di gran parte dei
cardinali, dedicava i versi del recitativo finale fra la
Fede, la Speranza e l’Amor divino:
« Fede: So che sempre il
governo/ Del commesso naviglio a man fedele/ Passar
dovrà dal condottier primiero.//
Speranza: Oh qual
ordine io spero/ Di successori illustri,/ Somiglianti
nell’opre al gran nocchiero!//
Amor Divino: Ma fra
quanti saranno/ All’ardua cura eletti,/ Uno il Ciel ne
darà che fia verace/ D’umiltà, d’innocenza esempio al
mondo./ Questi l’ore fraudando a’ suoi riposi,/ Or
suderà ne’ tempii, o al vero Nume/ Sacrando are novelle,
o al puro fonte/ L’altrui macchie lavando; or di sua
mano/ Imprimerà nell’alme/ I caratteri sacri; ed in ogni
opra/ Fia de’ riti divini/ Rigido osservator. Tanto la
terra/ L’ammirerà, che il benedetto nome/ Sarà speme
agli afflitti,/ A’ rei spavento e riverenza a’ regi.
»
Corre quasi l’obbligo di
osservare che l’elogio di Benedetto XIII, ripercorrendo
Metastasio con mirabile sintesi le reali e storiche
caratteristiche del pontificato di papa Gianfrancesco
Orsini, può a buon diritto rappresentare una
premonizione e una poetica giustificazione del processo
di beatificazione aperto dall’Ordine dei Domenicani fin
dal febbraio 1931. Potremmo dire a tale proposito che
stupisce come nessuno tra teologi e uomini di Chiesa
preposti a tali incombenze non abbia ancora saputo fare
tesoro dei versi e dell’oratorio del poeta romano,
composti quando il pontefice esplicava la sua azione
pastorale.
Ben altre sarebbero state
a Vienna le fonti di ispirazione degli oratori di Pietro
Metastasio, nonché le condizioni e il luogo delle
rappresentazioni, soprattutto a seguito del particolare
e sincero gradimento da parte di Carlo VI de La
passione di Gesù Cristo, messa in musica da
Antonio Caldara martedì di Pasqua 4 aprile 1730 nella
Hofkapelle, dinanzi al Santo Sepolcro con la
partecipazione da un lato dell’altare dell’imperatore e
della sua famiglia, dall’altro lato della nobiltà e dei
dignitari di corte.
Se da una parte le fonti
per i sette oratori viennesi sono costituite dai sacri
testi del Nuovo e dell’Antico Testamento – (occorre
notare che Per la festività del SS. Natale Artino
Corasio sembra ricorrere esclusivamente alla grazia
della sua ispirazione poetica, e all’ossequio verso lo
stile nitido e polito proprio dei migliori
letterati in Arcadia, senza citazioni di alcun genere e
tipo provenienti dalle Sacre Scritture) – dall’altra lo
sforzo del Poeta Cesareo è rivolto sempre non soltanto a
coinvolgere il suo destinatario fondamentale
suscitandone l’emozione e i sentimenti religiosi di
sincero cattolicissimo sovrano ma anche ad inviduare
nell’azione teatrale sacra exempla, ovvero figure
che possano creare in tutto il pubblico possibilità di
identificazione tra il sacrificio del Figlio di Dio e
quel typus Christi al quale aspira di conformarsi
e aderire la vita e l’agire dello stesso imperatore.
Il compito del Poeta
Cesareo è particolarmente impegnativo se pensiamo che
mentre a Roma tutte le sue opere per musica, a
cominciare dal melodramma, le feste teatrali, ed anche
l’unico oratorio, possono essere accompagnate dalle note
piene di pathos e sentimento proprie della scuola
napoletana (e degli altri grandi centri dell’Italia del
tempo), alla corte di Vienna nella prima metà del XVIII
secolo i suoi versi per volontà dell’imperatore vengono
messi in musica dai compositori al servizio di Carlo VI,
dai kapellmeister o vice-kapellmeister, il
cui stile e la cui formazione risente il più delle volte
dell’influenza madrigalistico-contrappuntistica
seicentesca, forse più consona all’atmosfera austera ed
intimistica nello spazio pressoché angusto della
Hofkapelle, che non alla piena forma espressiva
raggiunta ormai dalla musica italiana, dei Pergolesi,
Vinci, Leo, Hasse, e Vivaldi.
Inoltre ed infine, la
rappresentazione dell’oratorio eseguito dinanzi al Santo
Sepolcro, se costituisce una sorta di cauta alternativa
rispetto all’azione sacra luterana che prevede
unicamente la parafrasi e la messa in musica dei Sacri
testi, risponde pur sempre all’esigenza tutt’affatto
paraliturgica di accompagnare con i versi e la musica la
meditazione religiosa dell’augusto destinatario durante
i riti della Settimana Santa. Gli apparati scenografici
sono perciò estremamente ridotti, come anche la
composizione dell’orchestra, mentre anche i cantanti
solisti sono tenuti ad un’espressività scevra dalle
esibizioni coloristiche e belcantistiche loro ampiamente
concesse nei teatri pubblici.
Una parte più consistente
è affidata al Coro che svolge la funzione di concentrare
ed elevare il pathos spirituale dei presenti nella
celebrazione dei misteri della Fede e della Rivelazione.
Con tali condizioni
limitative, dovute al luogo e all’illustre committente e
destinatario dell’oratorio viennese, la forza
comunicativa dell’azione teatrale sacra, appoggiata alle
fonti bibliche, è più che mai nei versi e nella
espressiva drammatizzazione della parola di Pietro
Metastasio.
Certamente dovette
esercitate una grande sorpresa in Carlo VI lo stesso
incipit de La passione di Gesù Cristo: nella
disarmante fragilità di Pietro «Dove son? Dove corro?/
Chi regge i passi miei? Dopo il mio fallo/ Non ritrovo
più pace; » il
dramma della croce era rivissuto per la prima volta (si
badi bene: in italiano e non in latino, e neppure nella
lingua tedesca) all’interno delle psicologie, dei
sentimenti e delle passioni dei personaggi sconvolti
dalla morte del Figlio di Dio, già avvenuta, e ignorata
da Pietro. L’apostolo, sottrattosi alla cattura di Gesù
nell’orto degli ulivi e nascostosi per l’umano timore
del dolore e della morte, diviene il motore drammatico
dell’oratorio, raccogliendo dal dolente rammemorare
della Maddalena, di Giovanni, e di Giuseppe d’Arimatea,
la via Crucis che si è compiuta con il martirio
del divino maestro sul Golgota.
Pietro riconosce
amaramente i suoi errori e le sue colpe attraverso le
parole di Giovanni che ricordano l’estremo atto d’amore
di Gesù per Maria e verso Giovanni e la sua agonia:
«Dall’empie turbe
oppressi/ Me vide e lei. Fra i suoi tormenti intese/
Pietà de’ nostri: e alternamente allora/ L’uno all’altro
accennando/ Con la voce e col ciglio,/ Me provvide di
madre, e lei di figlio».
Soltanto ora Pietro,
nell’ultima aria della prima parte dell’oratorio, può
partecipare al dolore di chi ha potuto assistere al
martirio di Gesù:
«Tu nel duol felice sei,/
Che di figlio il nome avrai/ Su le labbra di colei/ Che
nel seno un Dio portò.// Non invidio il tuo contento:/
Piango sol che il fallo mio, /Lo conosco, lo rammento,/
Tanto ben non meritò».
Nella successiva aria di
Giovanni che precede il lamento di Pietro e quello a due
tra lo stesso Pietro e Maddalena, e il Coro finale della
prima parte dell’oratorio, Metastasio riesce a conferire
ai personaggi del dramma, tratti e delineati dai passi
dei Vangeli di Giovanni, Matteo, e Luca, il pathos
umanamente realistico di testimoni degli ultimi istanti
di vita del Salvatore.
«Dopo un pegno sì grande/
D’amore e di pietà, pensa qual fosse/ Pietro, la pena
mia. Veder l’amara/ Bevanda, offerta alla sua sete;
udirlo/ Nell’estreme agonie: tutto è compito/
Esclamar altamente; e verso il petto/ Inclinando la
fronte/ Vederlo in faccia alle perverse squadre/ Esalar
la grand’alma in mano al Padre».
La seconda parte
dell’oratorio riserva ancora la sorpresa di sviluppare
l’azione drammatica non secondo il chliché della
narrazione della Resurrezione del Cristo, ma della sua
certa promessa come manifestazione della metanoia o
conversione prodotta nel cuore dell’umanità, d’ora in
avanti capace di ritrovare Dio e il suo amore in tutta
la natura e in se stessa:
«Dovunque il guardo
giro,/Immenso Dio ti vedo: Nell’opre tue t’ammiro,/ Ti
riconosco in me.// La terra, il mar, le sfere/ Parlan
del tuo potere:/ Tu sei per tutto; e noi/ Tutti viviamo
in te».
Alla riflessione quasi di
natura filosofica, forse apparentabile a quel
cristianesimo protestante dei Levellers della
secentesca I Rivoluzione Inglese – potremmo ricordare
l’utopia di Gerrard Winstanley, uno tra i loro più
importanti esponenti – per l’unità indissolubile
significata da questo tutti-Dio-tutto, quasi senza più
dicotomia tra Trascendenza e Immanenza, Metastasio fa
seguire, nella conclusione dell’oratorio, l’immagine
della supremazia riservata a quei sovrani in terra che
hanno riconosciuto la vera Fede e sanno rivolgere ad
essa prima di tutto se stessi in tutti i loro atti,
insieme agli uomini di cui amministrano l’esistenza. Il
rinvio così alla figura del sacrificio del Cristo come
modello o typus per l’ethos
dell’imperatore del Sacro Romano Impero Germanico prende
la forma che successivamente assumeranno anche gli altri
oratori viennesi nelle loro distinte narrazioni
bibliche:
« Giuseppe: Al suo
sepolcro/ Verranno un dì, verranno/ Supplici i duci e
pellegrini i regi.//
Pietro: Sarà l’eccelso
Legno/ Ai fedeli difesa,/ All’inferno terror, trionfo al
Cielo.//
Maddalena: Da quest’arbore
ogni alma/ Raccoglierà salute.//
Giuseppe: In questo
segno/ Vinceranno i monarchi.//
Giovanni: Appresso a
questo/ Trionfante vessillo/ All’acquisto del Ciel
volgere i passi/ La ricomprata umanità vedrassi».
Al cattolicissimo Carlo
VI questo “annuncio” dell’arrivo da Roma del suo Poeta
Cesareo dovette apparire come il dono sperato quanto
inatteso del riconoscimento della dedizione al Bene
comune dell’Impero, in nome della sua profonda
religiosità.
La Pasqua successiva del
1731, Metastasio riprendeva in Sant’Elena al Calvario,
quasi collegandosi idealmente all’esaltazione del Legno
della Croce nel finale de La passione di Gesù Cristo,
la vicenda della madre dell’imperatore Costantino, la
pia Elena che, avverando le parole del profeta Isaia,
et erit sepulcrum eius gloriosum, le interpretazioni
esegetiche di Nicolò di Lira e di San Girolamo, si
recava a Gerusalemme e con l’aiuto del vescovo Macario
riscopriva il luogo del Sepolcro di Cristo e ritrovava
anche la Santa Croce per esporre l’uno e l’altra
all’adorazione e alla preghiera dei credenti.
Messo in musica da
Antonio Caldara, vice-kapellmeister, l’oratorio
del 1731 (come sempre eseguito dinanzi al Santo Sepolcro
nella Hofkapelle) svolge come la funzione di
rappresentare al tempo stesso la pietas religiosa
dell’imperatrice romana, convertita al cattolicesimo,
unitamente a quella di Carlo VI e della sua famiglia, in
particolare della moglie Elisabetta Cristina di
Braunschweig-Wolfenbüttel, anch’essa passata alla fede
cattolica dall’originario protestantesimo luterano nel
quale era stata educata. Anche in questo oratorio la
rappresentazione della madre di Costantino, figura
dell’imperatrice Elisabetta Cristina, assume il
significato della redenzione dalla colpa e dal peccato
da parte di chi, come l’imperatrice romana e
l’imperatrice germanica, riconoscono interamente la
propria fragilità naturale alla stregua di ogni altro
essere umano, confidando per la propria salvezza nella
Croce e nel suo esempio.
Per la Settimana Santa
del 1732 a Pietro Metastasio veniva richiesto da Carlo
VI di comporre con La morte d’Abel la
raffigurazione premonitrice del sacrificio di Gesù,
vittima designata per la sua innocenza – così come Abele
ucciso da Caino per non avere alcuna colpa – a salvare
l’intero genere umano.
L’intonazione
dell’oratorio veniva affidata a Georg Reutter, divenuto
vice-kapellmeister di Antonio Caldara.
Nell’odiosa e corrusca
macchinazione che consente a Caino di carpire la fiducia
e l’innocenza del prediletto figlio di Adamo ed Eva e di
colpire a morte il fratello – morte che peraltro
Metastasio non mette in scena, preferendo farla narrare
dalle voci provenienti dal Cielo – Abele rappresenta
chi, colmo dei doni d’amore di Dio, è stato impedito di
poterli offrire a tutto il genere umano, mentre Caino
all’opposto è il simbolo della distruzione insensata,
della guerra e del rifiuto di qualsiasi misericordia per
sé e per gli altri. Riprendendo ancora con esegetica
precisione i testi vetero-testamentari della Genesi, i
Padri della Chiesa, ed anche di Sant’Agostino,
Metastasio conferisce all’aria dell’Angelo che reca a
Caino la pena comminatagli dal Signore un’ inusuale
forza drammatica:
«Vivrai, ma sempre in
guerra,/ Ma dubbio di tua sorte:/ Vivrai, ma della
morte/ Con vita assai peggior.// Alle tue brame avversa/
Non produrrà la terra,/ Inutilmente aspersa/ Dal vano
tuo sudor».
L’unica speranza e
fondamentale offerta in quest’oratorio dai toni scuri,
quasi presaghi, forse, delle guerre e delle perdite di
territori che si stanno addensando sulla testa di Carlo
VI (dalla messa in discussione della Pragmatica Sanzione
con cui egli legiferava la discendenza alla figlia Maria
Teresa della corona imperiale, fino alla discesa dei
Borbone in Italia meridionale che avrebbero cacciato
l’Austria da Napoli) è nel recitativo finale di Adamo:
«Senza mistero/ Non è sì
grande evento. Io ne traveggo/ Fra l’ombre del futuro,/
Come sol fra le nubi, il senso oscuro./ Oh vero Abelle a
ricomprare eletto/ Col sangue prezioso/ La serva
umanitade! Io ti ravviso/ Nell’immagine tua. Felici voi/
Ne’ secoli remoti,/ Tardi nipoti, a cui saranno aperte,/
Senza il velo che le asconde,/ Del consiglio di Dio le
vie profonde».
Il Coro finale,
coerentemente con l’atmosfera quasi tragica di tutto
l’oratorio, non può che concludersi con l’appello a
cercare l’empietà che è in ognuno degli uomini ai quali
deve ancora manifestarsi colui che con la sua morte li
salverà e rivelerà la strada dell’amore e della Fede:
«Parla l’estinto Abelle,
e colle chiare/ Voci del sangue il parricida accusa./
Mortali, a noi si parla. Ognun di noi/ Ha parte nel
delitto./ Ma non l’ha nel dolor. Detesta ognuno/ Le vie
degli empi, e v’introduce il piede;/ Aborrisce Caino, e
in sé nol vede».
Quasi a compensare
prefigurando in contenuti e azioni di grande carità
l’oratorio della vittima sacrificata ad un’umanità
ancora incapace di trovare in sé stessa le
responsabilità della colpa, priva, in definitiva, di
qualità morali (come è la figura di Caino), Metastasio
nella Pasqua dell’anno seguente 1733 componeva per Carlo
VI l’azione sacra Giuseppe riconosciuto, messo in
musica da Giuseppe Porsile.
Quasi in una sequenza
narrativa passata prima attraverso La passione di
Gesù Cristo, come rapporto intrinseco tra
Gesù e l’essere umano, poi nel ritrovamento/novella
conversione della Croce di Sant’Elena, quindi
nella colpa originaria di un male infruttifero (Caino)
la causa della sopraffazione del Bene (Abele),
Metastasio arriva a comporre in Giuseppe riconosciuto,
nel figlio di Giacobbe e Rachele, la figura che
affrancandosi con le sue forze da un ottenebrante
desiderio di vendetta verso i fratelli che l’hanno
venduto bambino ai mercanti, privandolo di tutto, da sé
diviene elargitore di ricchezza e giustizia per tutti,
anche nel regno egiziano che l’ha accolto, fino a
ricevere gli ignari fratelli che lo ritengono un potente
signore per salvarli dalla carestia che ha stremato
Israele, donando loro gli alimenti, il perdono e la
riconciliazione.
Nel recitativo finale
Metastasio contribuisce a delineare quel mito di
Giuseppe (“il Guaritore”) –(cui negli anni Quaranta in
USA darà piena espressione Thomas Mann quale forma
esemplare della civiltà democratica in contrapposizione
alla furia distruttiva del nazismo) – costruendo ed
evocando la continuità tra la civiltà del popolo eletto
con i suoi profeti e quella dell’avvento del
Cristianesimo:
«Il portentoso giro/
Delle vicende mie, fratelli, asconde/ Più di quel che si
vede. A voi dal padre/ Pieno d’amor vengo mandato; e
voi/ Tramate il mio morir. Venduto a prezzo/ Sono a
barbaro stuol. Servo in Egitto;/ Accusato, innocente,/
Non mi difendo, e tollero la pena/ Dovuta a chi
m’accusa. Avvinto in mezzo/ A due rei mi ritrovo, e
presagisco/ Morte all’un, gloria all’altro. Accolgo
amico/ I miei persecutori. Io somministro/ Alimenti di
vita/ A chi morto mi volle. Io dir mi sento/ Salvator
della terra. Ah di chi mai/ Immagine son io! Qualche
grand’opra/ Certo in Ciel si matura/ Di cui forse è
Giuseppe ombra e figura».
Nella Pasqua del 1734,
quasi a comporre una sorta di organica sequenza dalle
vicende vetero-testamentarie dell’anno precedente –
Giuditta è la vedova di Manasse a sua volta figlio di
Giuseppe – diviene il nucleo dell’oratorio Betulia
liberata, messo in musica da Georg Reutter.
La storia di Giuditta,
topos sia dell’iconografia rinascimentale fino al famoso
dipinto del Solimena negli anni Venti del Settecento,
che di numerose composizioni musicali sei-settecentesche,
viene qui ripresa da Metastasio per comporre un’azione
sacra nella quale l’uccisione del generale assiro
Oloferne, che assedia e vuole distruggere Betulia,
mitica città di Israele, con tutti i suoi abitanti,
offre l’opportunità a Metastasio di rivendicare
all’eroina biblica, grazie alla sua Fede, la funzione di
interprete ed esecutrice della giusta volontà divina di
liberare il popolo eletto dall’oppressione e dalla
morte.
Al tempo stesso
l’oratorio, attraverso il miracolo del compimento della
missione di Giuditta, consente al Poeta Cesareo di
comporre uno tra i più serrati dialoghi teologici tra il
sacerdote israelita Ozia e Achior, re degli Ammoniti,
pagano. Achior, tuttavia, soltanto dopo aver appreso dal
racconto della inerme Giuditta, tornata indenne con la
testa di Oloferne a Betulia, come e con quale aiuto la
vedova di Manasse ha potuto realizzare il disegno
divino, dichiara la sua conversione alla fede del Dio di
Israele con i versi dell’aria che anche Beethoven volle
intonare:
«Te solo adoro,/ Mente
infinita,/ Fonte di vita,/ Di verità;// In cui si muove,
/Da cui dipende/ Quanto comprende/ L’eternità».
Il rinvio alla realtà
delle condizioni storico-politiche di Carlo VI è in
Betulia come rappresentato dall’incitamento rivolto
al suo imperatore, dopo la perdita di Napoli proprio in
quel 1734, a dover sostenere le prossime ben più dure
prove del rigetto dell’ascesa al soglio imperiale di
Maria Teresa d’Asburgo da parte della coalizione
franco-prussiana e di alcuni grandi elettori tedeschi.
In questa ottica di una
sempre più stretta connessione dell’oratorio con le
incombenti crisi politiche dell’equilibrio europeo, fino
all’inizio della Guerra di Successione austriaca nel
1740, anche le due ultime azioni sacre, Gioas re di
Giuda (Vienna, 1735, con musiche del Reutter) e
Isacco figura del Redentore (Vienna, 1740, con
musiche di Luca Antonio Predieri), andranno ad assumere
sempre più la forma di sacre composizioni che intendono
proporre alla religiosità dell’imperatore la ricerca del
giusto rapporto tra Fede e ragione.
Carlo VI non avrebbe
fatto in tempo né a chiedere al suo Poeta Cesareo di
comporre per lui nella Hofkapelle altri oratori,
né all’apertura delle ostilità della Guerra di
Successione austriaca, che nessuno dei contendenti al
titolo imperiale volle intraprendere mentre egli era in
vita.
Improvvisamente, però,
Carlo VI moriva nell’ottobre 1740.
Mario Valente – 27 Marzo
2011