MARIO VALENTE

Pienzarmonia

Pienza 26-27 marzo 2011

Gli oratori o l’oratorio di Pietro Metastasio?

L’opera di profondo rinnovamento prodotta da Pietro Metastasio nella tradizione dell’azione teatrale sacra, a seguito e, in certa misura, in modo conforme al rinnovamento del melodramma, si fonda sul definitivo abbandono della precedente esperienza del Barocco, il cui teatro musicale aveva visto l’affermazione del meraviglioso e di sorprendenti eventi irreali, così come questo era andato affermandosi per tutto il Seicento, sino al termine di tale egemonia, culminata e risolta con la rappresentazione de La Resurrezione di G.F. Haendel nel 1708 a Roma, a Palazzo Bonelli, su ordine del marchese Francesco Maria Ruspoli, di lì a poco principe di Cerveteri.

A fronte della spettacolarità di tipo barocco: l’apparizione sulla scena di angeli e demoni, di santi e profeti, figure simbolico-allegoriche chiamate di volta in volta a suscitare interventi extra-naturali, la prospettiva di terribili eterne punizioni dei peccatori, e gli esempi salvifici per ottenere la Grazia e la Verità, nell’oratorio di Pietro Metastasio la spiritualità religiosa del Cristianesimo viene rappresentata mediante il recupero testuale ed esegetico-ermeneutico delle Sacre Scritture, dalle quali il poeta ricava e costruisce l’intreccio drammatico.

La libertà narrativa esercitata rielaborando le storie tratte dall’Antico e dal Nuovo Testamento oltre a fornire di per sé la verosimiglianza già perseguita e prodotta dalla poetica metastasiana nel melodramma, in virtù del manifestarsi nei Sacri testi della Verità  tende a proporsi come una sorta di pedagogia etico-religiosa per il destinatario dell’oratorio e per ogni credente.

Tale libera rielaborazione non può che essere indipendente dalla funzione liturgica della Messa nella quale i sacri testi, declamati, cantati o recitati, accompagnano  devotamente l’approssimarsi della condivisione eucaristica dei fedeli.

Cosa non ultima nè secondaria, l’oratorio metastasiano adotta esclusivamente la lingua e la poesia italiana, intendendo con ciò gettare un ponte comunicativo con il più vasto pubblico possibile.

Ma se è vero come è vero che già prima dell’azione teatrale sacra di Metastasio, altri illustri poeti avevano contribuito all’autonomia della forma oratoriale dalla serialità del Barocco e dalle funzioni liturgiche (come ad esempio da parte di Apostolo Zeno e di Pietro Pariati, di Carlo Sigismondo Capece e di Silvio Stampiglia), consentendo così a grandi compositori come Alessandro Scarlatti, Leo Vinci e G.F. Haendel, fra molti altri, di esaltare con le loro musiche testi che esprimevano una verosimile spiritualità della religione cristiana, si può affermare che soltanto con l’oratorio di Metastasio l’intreccio narrativo e il suo stretto rapporto con la scena teatrale e la musica, mediante l’organico alternarsi di arie e recitativi, conferisce ai personaggi della tradizione biblica delineati le possibilità di scelta attribuite all’essere umano nella sua integralità psicologica ed esistenziale.

Tale attualizzazione umanistica del religioso e del sacro raggiunge il suo akmé  connettendo l’exemplum veritatis tratto dai protagonisti della Sacra Scrittura come figure o typi di situazioni e bene individuabili ruoli storico-politici della realtà del tempo.

La rilevanza della storia sacra come pedagogia etico-religiosa destinata ai credenti, e la figuralità simbolico-politica dei personaggi biblici riconducibile ai protagonisti della storia del XVIII secolo, sono perciò gli elementi costitutivi della fortuna dell’oratorio metastasiano e della sua popolarità in particolare a Roma per tutto il Settecento (ed oltre).

A tale fortuna contribuì potentemente l’esperienza fondamentale della Congregazione dell’Oratorio di San Filippo Neri di Santa Maria in Vallicella e dell’annesso vicino Oratorio (progettato e fatto costruire da Francesco Borromini su ordine dei R.R.PP.  nella seconda metà del Seicento), sia nella qualità di “inventori” dell’azione sacra teatrale per la pratica devozionale dei credenti tra Cinque e Seicento, trasformatasi via via nei secoli successivi in un vero e proprio spettacolo religioso che, grazie alla Congregazione, si affermò con un successo paragonabile a quello del coevo melodramma nei teatri pubblici e privati romani.

A tale riguardo è sufficiente ricordare che, nel corso del Settecento, in particolare, fino alla crisi di fine secolo del papato, con la proclamazione dell’effimera Repubblica romana, a seguito dell’ingresso delle armate napoleoniche nella città eterna, i prefetti della musica della Congregazione di San Filippo Neri svolsero la funzione di veri e propri committenti e impresari di nuove importanti intonazioni dei libretti oratoriali di Pietro Metastasio nella città eterna, così che furono messi a stipendio come maestri di cappella dell’Oratorio secolare e in Santa Maria in Vallicella famosi compositori come, fra gli altri, Niccolò Jommelli, Antonio Sacchini, Pasquale Anfossi, e Francesco Morlacchi, i quali, peraltro, furono tra i più assidui nel frequentare la poesia per il teatro musicale di Metastasio ed intonarono in gran numero sia i suoi drammi sia gli oratori.

Il significato e il ruolo popolare raggiunto dalla produzione delle azioni teatrali sacre proposta incessantemente alla città eterna dai prefetti della musica della Congregazione consentiva che l’esecuzione dello spettacolo di argomento sacro avvenisse non soltanto nel periodo delle festività liturgico-religiose più importanti per il mondo cattolico, a Natale e a Pasqua,  ma anche in ogni momento dell’anno in occasione di svariate feste religiose, oltre che durante il Carnevale.

Le rappresentazioni degli oratori con l’organizzazione impresariale dei Filippini copriva ogni tipo di spesa, dalla falegnameria agli artigiani per allestire le scene all’impiego degli orchestrali, dalla stampa dei libretti a quella delle copie della partitura, dai cantanti al compositore fino al direttore dell’orchestra. Questa impresa artistica sfociava necessariamente con il fare ospitare le rappresentazioni dell’oratorio non soltanto nella chiesa della Congregazione ma in moltissimi altri luoghi di culto della Roma del tempo, nei conservatori di musica  ed anche nei palazzi della nobiltà romana.

Pietro Metastasio era stato alunno alla scuola primaria dei padri dell’Oratorio di San Filippo Neri, per ordine del cardinale Pietro Ottoboni che lo aveva tenuto a battesimo nella chiesa di San Lorenzo in Damaso al Palazzo della Cancelleria.

Ma soltanto dopo il trionfo a Napoli nel 1724 del suo primo dramma per musica, Didone abbandonata, e il ritorno definitivo nel 1727 a Roma da Venezia (con i grandi successi in laguna della replica della Didone con musiche di T. Albinoni, e del Siroe con musiche del Vinci), il suo padrino di battesimo, l’Ottoboni, riesce a legittimare il ruolo del figlioccio come Poeta della città eterna.  

Il cardinale-nepote di papa Alessandro VIII, mecenate delle arti nella Roma di Clemente XI, Benedetto XIII e Clemente XII, recupera alla gloria dell’Accademia dell’Arcadia Pietro Metastasio, a distanza di ben tre lustri dall’uscita, insieme a GianVincenzo Gravina, nel 1712 dal sodalizio letterario, e a meno di un decennio dal “fortunato” esilio a Napoli, un anno dopo la morte del maestro nel 1718.

L’Ottoboni commissiona a Metastasio, con il suo nome in Arcadia di Artino Corasio, il «sacro componimento drammatico» Per la festività del SS. Natale, eseguito ufficialmente il 2 Gennaio 1728 nel teatro juvarriano nel Palazzo della Cancelleria,  con le musiche, oggi perdute, di G.B. Costanzi (mentre il libretto, stampato da Antonio de’ Rossi, reca la data del 1727, riferendosi alle prove del 24 e 26 Dicembre, presenti le principesse di Fiano, parenti del cardinale), alla presenza di Violante di Baviera, granduchessa di Toscana, per festeggiare l’annuale adunanza dell’Accademia dell’Arcadia e del suo protettore, Gesù bambino.

Sarà la prima e l’ultima volta che Metastasio sceglierà la nascita del Salvatore come nucleo drammatico del suo oratorio, così come, dopo questo, non comporrà altri oratori per le scene romane, fatta eccezione la composizione a Roma de La passione di Gesù Cristo, per ordine di Carlo VI d’Asburgo, oratorio peraltro destinato a precedere il suo trasferimento a Vienna, Poeta Cesareo di quella corte, per essere rappresentato lì dinanzi al Santo Sepolcro nella Hofkapelle con il cattolicissimo imperatore in preghiera nella Pasqua del 1730.

Per la festività del SS Natale nonostante il significato attribuitogli dall’Ottoboni come rientro ufficiale e, diremmo oggi, in pompa magna, dell’allievo del Gravina nei ranghi di quell’Accademia dell’Arcadia espressione della cultura letteraria dominante a Roma, svolge nei fatti e nella stessa orditura poetica del giovane autore una funzione di raccordo con Vienna e il Sacro Romano Impero Germanico (e quindi con la futura “carriera” di Pietro Metastasio).

Quanto ai fatti, papa Benedetto XIII, il domenicano Pierfrancesco Orsini, noto per la sua disarmante innocenza e bontà d’animo, per la sua dedizione agli studi teologici e biblici, ha intrapreso decisamente il riavvicinamento all’Impero degli Asburgo consentendo a Carlo VI il ripristino del Tribunale della Monarchia con l’esercizio annesso della giurisdizione parziale sui beni ecclesiastici, sui titoli e nomine dei vescovi da parte imperiale, grazie all’abilità diplomatica del cardinale Niccolò Coscia, suo fiduciario, mettendo così pressoché fine alle controversie con il papato iniziate sotto Clemente XI a causa della sua politica filo-francese.

Viene rappresentata e come nella Festività del SS. Natale questa determinata congiuntura della guida pastorale e politica di Benedetto XIII?

Diversamente dai personaggi dell’Antico e Nuovo Testamento, protagonisti dotati, nei sette oratori del periodo viennese, della psicologia e dei caratteri esistenziali di un’umanità tormentata, qui gli attori/interlocutori assumono le trionfanti sembianze ed astratte delle Virtù teologali: la Fede, la Speranza, l’Amor divino, virtù introdotte dal Genio celeste (memoria questo dell’usato ed abusato macchinismo barocco, visto che Metastasio immagina il suo apparire in scena «corteggiato da altri Geni, sopra macchina nuvolosa che rappresenta una reggia trasparente»).

Il Genio celeste, dopo avere annunciato la nascita in terra del Figlio di Dio pronuncia una vera e propria esaltazione della raggiunta universale concordia che subito appare come un rinvio alle promesse di riappacificazione tra Benedetto XIII e Carlo VI:

«Pace, pace, o mortali; eccone il pegno./ A sostener la pena/ Del grave error, d’umanità velato/ L’eterno Figlio, il re de’ regi è nato./ A sì lieta novella/ Esulti il mondo intero; e, più che altrove,/ Il giubilo e la speme/ Passi di voi nel seno,/ Che di regni e d’imperi,/  Immagini di lui, reggete il freno./ Tutto lice sperar. Vedrà la terra/ In bel nodo di pace/ Congiunti i sogli, i sudditi fedeli,/ I talami reali/ Ricchi di prole. E che non fia concesso/ Da chi per voi sacrificò se stesso? »

A questo recitativo con l’annuncio della salvezza e della pace per la nascita di Gesù segue l’aria nella quale la figura del pellegrino e del nocchiero, cui in terra è affidato il compito di spargere la Buona Novella, si sposa con la riscoperta di quell’innocenza a un tempo metafora cara all’Arcadia e soprattutto espressione dell’animo e della pia religiosità di Benedetto XIII:

«Senza tema in suo cammino/ Di perigli e di procelle,/ Il nocchiero, il pellegrino/ Passi i monti e varchi il mar.// Siano amiche a voi le stelle,/ Siano a voi felici i giorni:/ E dal Ciel qua giù ritorni/ L’innocenza ad albergar. »

Metastasio, alias Artino Corasio arcade, attende sì al compito affidatogli dal padrino di battesimo, ma, nel celebrare la sempre potente filo-gesuita e filo-francese Accademia dell’Arcadia, al tempo stesso coglie l’opportunità di rendere esplicito omaggio e al magistero pastorale erga omnes potentes et reges in terra del papa regnante, e implicitamente al cardinale Coscia che, come già prima osservato, sta concludendo le trattative diplomatiche con l’Asburgo,  e che, come segretario di stato di Benedetto XIII, non solo ha voce in capitolo nella vita artistica e musicale di Roma (Metastasio dedicherà l’Ezio al Coscia e farà musicare il melodramma dall’Auletta, protetto del cardinale), ma è stato anche fautore dell’invito a Violante di Baviera, granduchessa di Toscana, alla rappresentazione dell’oratorio al palazzo della Cancelleria. Sono infatti aperte le trattative in vista del passaggio di Firenze e della Toscana, estintasi ormai la dinastia medicea, a case regnanti europee, e la moglie di Ferdinando de’ Medici è imparentata con gli Asburgo…

Proprio in quel 1727, Benedetto XIII aveva lasciato Roma alle “cure” del cardinale Coscia (a dir poco, non gradite ai Romani per il nepotismo e la sua ansia di arricchimento) per risiedere nell’amata Benevento e dedicarsi completamente agli studi, alla cura delle chiese della diocesi e all’assistenza dei poveri e dei diseredati.

Al pontefice, rientrato a Roma in quel Natale, Artino Corasio – quasi a fugare ogni perplessità dei Romani e  di gran parte dei cardinali, dedicava i versi del recitativo finale fra la Fede, la Speranza e l’Amor divino:

«  Fede: So che sempre il governo/ Del commesso naviglio a man fedele/ Passar dovrà dal condottier primiero.//

    Speranza: Oh qual ordine io spero/ Di successori illustri,/ Somiglianti nell’opre al gran nocchiero!//

    Amor Divino: Ma fra quanti saranno/ All’ardua cura eletti,/ Uno il Ciel ne darà che fia verace/ D’umiltà, d’innocenza esempio al mondo./ Questi l’ore fraudando a’ suoi riposi,/ Or suderà ne’ tempii, o al vero Nume/ Sacrando are novelle, o al puro fonte/ L’altrui macchie lavando; or di sua mano/ Imprimerà nell’alme/ I caratteri sacri; ed in ogni opra/ Fia de’ riti divini/ Rigido osservator. Tanto la terra/ L’ammirerà, che il benedetto nome/ Sarà speme agli afflitti,/ A’ rei spavento e riverenza a’ regi. »

Corre quasi l’obbligo di osservare che l’elogio di Benedetto XIII, ripercorrendo Metastasio con mirabile sintesi le reali e storiche caratteristiche del pontificato di papa Gianfrancesco Orsini, può a buon diritto rappresentare una premonizione e una poetica giustificazione del processo di beatificazione aperto dall’Ordine dei Domenicani fin dal febbraio 1931. Potremmo dire a tale proposito che stupisce come nessuno tra teologi e uomini di Chiesa preposti a tali incombenze non abbia ancora saputo fare tesoro dei versi e dell’oratorio del poeta romano, composti quando il pontefice esplicava la sua azione pastorale.

Ben altre sarebbero state a Vienna le fonti di ispirazione degli oratori di Pietro Metastasio, nonché le condizioni e il luogo delle rappresentazioni, soprattutto a seguito del particolare e sincero gradimento da parte di Carlo VI de La passione di Gesù Cristo, messa in musica da Antonio Caldara martedì di Pasqua 4 aprile 1730 nella Hofkapelle, dinanzi al Santo Sepolcro con la partecipazione da un lato dell’altare dell’imperatore e della sua famiglia, dall’altro lato della nobiltà e dei dignitari di corte.

Se da una parte le fonti per i sette oratori viennesi sono costituite dai sacri testi del Nuovo e dell’Antico Testamento – (occorre notare che Per la festività del SS. Natale Artino Corasio sembra ricorrere esclusivamente alla grazia della sua ispirazione poetica, e all’ossequio verso lo stile nitido e polito proprio dei migliori letterati in Arcadia, senza citazioni di alcun genere e tipo provenienti dalle Sacre Scritture) – dall’altra lo sforzo del Poeta Cesareo è rivolto sempre non soltanto a coinvolgere il suo destinatario fondamentale suscitandone l’emozione e i sentimenti religiosi di sincero cattolicissimo sovrano ma anche ad inviduare nell’azione teatrale sacra exempla, ovvero figure che possano creare in tutto il pubblico possibilità di identificazione tra il sacrificio del Figlio di Dio e quel typus Christi al quale aspira di conformarsi e aderire la vita e l’agire dello stesso imperatore.

Il compito del Poeta Cesareo è particolarmente impegnativo se pensiamo che mentre a Roma tutte le sue opere per musica, a cominciare dal melodramma, le feste teatrali, ed anche l’unico oratorio, possono essere accompagnate dalle note piene di pathos e sentimento proprie della scuola napoletana (e degli altri grandi centri dell’Italia del tempo), alla corte di Vienna nella prima metà del XVIII secolo i suoi versi per volontà dell’imperatore vengono messi in musica dai compositori al servizio di Carlo VI, dai kapellmeister o vice-kapellmeister, il cui stile e la cui formazione risente il più delle volte dell’influenza madrigalistico-contrappuntistica seicentesca, forse più consona all’atmosfera austera ed intimistica nello spazio pressoché angusto della Hofkapelle, che non alla piena forma espressiva raggiunta ormai dalla musica italiana, dei Pergolesi, Vinci, Leo, Hasse, e Vivaldi.

Inoltre ed infine, la rappresentazione dell’oratorio eseguito dinanzi al Santo Sepolcro, se costituisce una sorta di cauta alternativa rispetto all’azione sacra luterana che prevede unicamente la parafrasi e la messa in musica dei Sacri testi, risponde pur sempre all’esigenza tutt’affatto paraliturgica di accompagnare con i versi e la musica la meditazione religiosa  dell’augusto destinatario durante i riti della Settimana Santa. Gli apparati scenografici sono perciò estremamente ridotti, come anche la composizione dell’orchestra, mentre anche i cantanti solisti sono tenuti ad un’espressività scevra dalle esibizioni coloristiche e belcantistiche loro ampiamente concesse nei teatri pubblici.

Una parte più consistente è affidata al Coro che svolge la funzione di concentrare ed elevare il pathos spirituale dei presenti nella celebrazione dei misteri della Fede e della Rivelazione.

Con tali condizioni limitative, dovute al luogo e all’illustre committente e destinatario dell’oratorio viennese, la forza comunicativa dell’azione teatrale sacra, appoggiata alle fonti bibliche, è più che mai nei versi e nella espressiva drammatizzazione della parola di Pietro Metastasio.

Certamente dovette esercitate una grande sorpresa in Carlo VI lo stesso incipit de La passione di Gesù Cristo: nella disarmante fragilità di Pietro «Dove son? Dove corro?/ Chi regge i passi miei? Dopo il mio fallo/ Non ritrovo più pace; » il dramma della croce era rivissuto per la prima volta (si badi bene: in italiano e non in latino, e neppure nella lingua tedesca) all’interno delle psicologie, dei sentimenti e delle passioni dei personaggi sconvolti dalla morte del Figlio di Dio, già avvenuta, e ignorata da Pietro. L’apostolo, sottrattosi alla cattura di Gesù nell’orto degli ulivi e nascostosi per l’umano timore del dolore e della morte, diviene il motore drammatico dell’oratorio, raccogliendo dal dolente rammemorare della Maddalena, di Giovanni, e di Giuseppe d’Arimatea, la via Crucis che si è compiuta con il martirio del divino maestro sul Golgota.

Pietro riconosce amaramente i suoi errori e le sue colpe attraverso le parole di Giovanni che ricordano l’estremo atto d’amore di Gesù per Maria e verso Giovanni e la sua agonia:

«Dall’empie turbe oppressi/ Me vide e lei. Fra i suoi tormenti intese/ Pietà de’ nostri: e alternamente allora/ L’uno all’altro accennando/ Con la voce e col ciglio,/ Me provvide di madre, e lei di figlio».

Soltanto ora Pietro, nell’ultima aria della prima parte dell’oratorio, può partecipare al dolore di chi ha potuto assistere al martirio di Gesù:

«Tu nel duol felice sei,/ Che di figlio il nome avrai/ Su le labbra di colei/ Che nel seno un Dio portò.// Non invidio il tuo contento:/ Piango sol che il fallo mio, /Lo conosco, lo rammento,/ Tanto ben non meritò».

Nella successiva aria di Giovanni che precede il lamento di Pietro e quello a due tra lo stesso Pietro e Maddalena, e il Coro finale della prima parte dell’oratorio, Metastasio riesce a conferire ai personaggi del dramma, tratti e delineati dai passi dei Vangeli di Giovanni, Matteo, e Luca, il pathos umanamente realistico di testimoni degli ultimi istanti di vita del Salvatore.

«Dopo un pegno sì grande/ D’amore e di pietà, pensa qual fosse/ Pietro, la pena mia. Veder l’amara/ Bevanda, offerta alla sua sete; udirlo/ Nell’estreme agonie: tutto è compito/ Esclamar altamente; e verso il petto/ Inclinando la fronte/ Vederlo in faccia alle perverse squadre/ Esalar la grand’alma in mano al Padre».

La seconda parte dell’oratorio riserva ancora la sorpresa di sviluppare l’azione drammatica non secondo il chliché della narrazione della Resurrezione del Cristo, ma della sua certa promessa come manifestazione della metanoia o conversione prodotta nel cuore dell’umanità, d’ora in avanti capace di ritrovare Dio e il suo amore in tutta la natura e in se stessa:

«Dovunque il guardo giro,/Immenso Dio ti vedo: Nell’opre tue t’ammiro,/ Ti riconosco in me.// La terra, il mar, le sfere/ Parlan del tuo potere:/ Tu sei per tutto; e noi/ Tutti viviamo in te».

Alla riflessione quasi di natura filosofica, forse apparentabile a quel cristianesimo protestante dei Levellers della secentesca I Rivoluzione Inglese – potremmo ricordare l’utopia di Gerrard Winstanley, uno tra i loro più importanti esponenti – per l’unità indissolubile significata da questo tutti-Dio-tutto, quasi senza più dicotomia tra Trascendenza e Immanenza, Metastasio fa seguire, nella conclusione dell’oratorio, l’immagine della supremazia riservata a quei sovrani in terra che hanno riconosciuto la vera Fede e sanno rivolgere ad essa prima di tutto se stessi in tutti i loro atti, insieme agli uomini di cui amministrano l’esistenza. Il rinvio così alla figura del sacrificio del Cristo come modello o typus per l’ethos dell’imperatore del Sacro Romano Impero Germanico prende la forma che successivamente assumeranno anche gli altri oratori viennesi nelle loro distinte narrazioni bibliche:

« Giuseppe: Al suo sepolcro/ Verranno un dì, verranno/  Supplici i duci e pellegrini i regi.//

   Pietro: Sarà l’eccelso Legno/ Ai fedeli difesa,/ All’inferno terror, trionfo al Cielo.//

   Maddalena: Da quest’arbore ogni alma/ Raccoglierà salute.//

   Giuseppe: In questo segno/ Vinceranno i monarchi.//

   Giovanni: Appresso a questo/ Trionfante vessillo/ All’acquisto del Ciel volgere i passi/ La ricomprata umanità vedrassi».

Al cattolicissimo Carlo VI questo “annuncio” dell’arrivo da Roma del suo Poeta Cesareo dovette apparire come il dono sperato quanto inatteso del riconoscimento della dedizione al Bene comune dell’Impero, in nome della sua profonda religiosità.

La Pasqua successiva del 1731, Metastasio riprendeva in Sant’Elena al Calvario, quasi collegandosi idealmente all’esaltazione del Legno della Croce nel finale de La passione di Gesù Cristo, la vicenda della madre dell’imperatore Costantino, la pia Elena che, avverando le parole del profeta Isaia, et erit sepulcrum eius gloriosum, le interpretazioni esegetiche di Nicolò di Lira e di San Girolamo, si recava a Gerusalemme e con l’aiuto del vescovo Macario riscopriva il luogo del Sepolcro di Cristo e ritrovava anche la Santa Croce per esporre l’uno e l’altra all’adorazione e alla preghiera dei credenti.

Messo in musica da Antonio Caldara, vice-kapellmeister, l’oratorio del 1731 (come sempre eseguito dinanzi al Santo Sepolcro nella Hofkapelle) svolge come la funzione di rappresentare al tempo stesso la pietas religiosa dell’imperatrice romana, convertita al cattolicesimo, unitamente a quella di Carlo VI e della sua famiglia, in particolare della moglie Elisabetta Cristina di Braunschweig-Wolfenbüttel, anch’essa passata alla fede cattolica dall’originario protestantesimo luterano nel quale era stata educata. Anche in questo oratorio la rappresentazione della madre di Costantino, figura dell’imperatrice Elisabetta Cristina, assume il significato della redenzione dalla colpa e dal peccato da parte di chi, come l’imperatrice romana e l’imperatrice germanica, riconoscono interamente la propria fragilità naturale alla stregua di ogni altro essere umano, confidando per la propria salvezza nella Croce e nel suo esempio.

Per la Settimana Santa del 1732 a Pietro Metastasio veniva richiesto da Carlo VI di comporre con La morte d’Abel la raffigurazione premonitrice del sacrificio di Gesù, vittima designata per la sua innocenza – così come Abele ucciso da Caino per non avere alcuna colpa – a salvare l’intero genere umano. 

L’intonazione dell’oratorio veniva affidata a Georg Reutter, divenuto vice-kapellmeister di Antonio Caldara.

Nell’odiosa e corrusca macchinazione che consente a Caino di carpire la fiducia e l’innocenza del prediletto figlio di Adamo ed Eva e di colpire a morte il fratello – morte che peraltro Metastasio non mette in scena, preferendo farla narrare dalle voci provenienti dal Cielo – Abele rappresenta chi, colmo dei doni d’amore di Dio, è stato impedito di poterli offrire a tutto il genere umano, mentre Caino all’opposto è il simbolo della distruzione insensata, della guerra e del rifiuto di qualsiasi misericordia per sé e per gli altri. Riprendendo ancora con esegetica precisione i testi vetero-testamentari della Genesi, i Padri della Chiesa, ed anche di Sant’Agostino, Metastasio conferisce all’aria dell’Angelo che reca a Caino la pena comminatagli dal Signore un’ inusuale forza drammatica:

«Vivrai, ma sempre in guerra,/ Ma dubbio di tua sorte:/ Vivrai, ma della morte/ Con vita assai peggior.// Alle tue brame avversa/ Non produrrà la terra,/ Inutilmente aspersa/ Dal vano tuo sudor».

L’unica speranza e fondamentale offerta in quest’oratorio dai toni scuri, quasi presaghi, forse, delle guerre e delle perdite di territori che si stanno addensando sulla testa di Carlo VI (dalla messa in discussione della Pragmatica Sanzione con cui egli legiferava la discendenza alla figlia Maria Teresa della corona imperiale, fino alla discesa dei Borbone in Italia meridionale che avrebbero cacciato l’Austria da Napoli) è nel recitativo finale di Adamo:

«Senza mistero/ Non è sì grande evento. Io ne traveggo/ Fra l’ombre del futuro,/ Come sol fra le nubi, il senso oscuro./ Oh vero Abelle a ricomprare eletto/ Col sangue prezioso/ La serva umanitade! Io ti ravviso/ Nell’immagine tua. Felici voi/ Ne’ secoli remoti,/ Tardi nipoti, a cui saranno aperte,/ Senza il velo che le asconde,/ Del consiglio di Dio le vie profonde».

Il Coro finale, coerentemente con l’atmosfera quasi tragica di tutto l’oratorio, non può che concludersi con l’appello a cercare l’empietà che è in ognuno degli uomini ai quali deve ancora manifestarsi colui che con la sua morte li salverà e rivelerà la strada dell’amore e della Fede:

«Parla l’estinto Abelle, e colle chiare/ Voci del sangue il parricida accusa./ Mortali, a noi si parla. Ognun di noi/ Ha parte nel delitto./ Ma non l’ha nel dolor. Detesta ognuno/ Le vie degli empi, e v’introduce il piede;/ Aborrisce Caino, e in sé nol vede».

Quasi a compensare prefigurando in contenuti e azioni di grande carità l’oratorio della vittima sacrificata ad un’umanità ancora incapace di trovare in sé stessa le responsabilità della colpa, priva, in definitiva, di qualità morali (come è la figura di Caino), Metastasio nella Pasqua dell’anno seguente 1733 componeva per Carlo VI l’azione sacra Giuseppe riconosciuto, messo in musica da Giuseppe Porsile.

Quasi in una sequenza narrativa passata prima attraverso La passione di Gesù Cristo, come rapporto intrinseco tra Gesù e l’essere umano, poi nel ritrovamento/novella conversione della Croce di Sant’Elena, quindi nella colpa originaria di un male infruttifero (Caino) la causa della sopraffazione del Bene (Abele), Metastasio arriva a comporre in Giuseppe riconosciuto, nel figlio di Giacobbe e Rachele, la figura che affrancandosi con le sue forze da un ottenebrante desiderio di vendetta verso i fratelli che l’hanno venduto bambino ai mercanti, privandolo di tutto, da sé diviene elargitore di ricchezza e giustizia per tutti, anche nel regno egiziano che l’ha accolto, fino a ricevere gli ignari fratelli che lo ritengono un potente signore per salvarli dalla carestia che ha stremato Israele, donando loro gli alimenti, il perdono e la riconciliazione.

Nel recitativo finale Metastasio contribuisce a delineare quel mito di Giuseppe (“il Guaritore”) –(cui negli anni Quaranta in USA darà piena espressione Thomas Mann quale forma esemplare della civiltà democratica in contrapposizione alla furia distruttiva del nazismo) – costruendo ed evocando la continuità tra la civiltà del popolo eletto con i suoi profeti e quella dell’avvento del Cristianesimo:

«Il portentoso giro/ Delle vicende mie, fratelli, asconde/ Più di quel che si vede. A voi dal padre/ Pieno d’amor vengo mandato; e voi/ Tramate il mio morir. Venduto a prezzo/ Sono a barbaro stuol. Servo in Egitto;/ Accusato, innocente,/ Non mi difendo, e tollero la pena/ Dovuta a chi m’accusa. Avvinto in mezzo/ A due rei mi ritrovo, e presagisco/ Morte all’un, gloria all’altro. Accolgo amico/ I miei persecutori. Io somministro/ Alimenti di vita/ A chi morto mi volle. Io dir mi sento/ Salvator della terra. Ah di chi mai/ Immagine son io! Qualche grand’opra/ Certo in Ciel si matura/ Di cui forse è Giuseppe ombra e figura».

Nella Pasqua del 1734, quasi a comporre una sorta di organica sequenza dalle vicende vetero-testamentarie dell’anno precedente – Giuditta è la vedova di Manasse a sua volta figlio di Giuseppe – diviene il nucleo dell’oratorio Betulia liberata, messo in musica da Georg Reutter.

La storia di Giuditta, topos sia dell’iconografia rinascimentale fino al famoso dipinto del Solimena negli anni Venti del Settecento, che di numerose composizioni musicali sei-settecentesche, viene qui ripresa da Metastasio per comporre un’azione sacra nella quale l’uccisione del generale assiro Oloferne, che assedia e vuole distruggere  Betulia, mitica città di Israele, con tutti i suoi abitanti, offre l’opportunità a Metastasio di rivendicare all’eroina biblica, grazie alla sua Fede, la funzione di interprete ed esecutrice della giusta volontà divina di liberare il popolo eletto dall’oppressione e dalla morte.

Al tempo stesso l’oratorio, attraverso il miracolo del compimento della missione di Giuditta, consente al Poeta Cesareo di comporre uno tra i più serrati dialoghi teologici tra il sacerdote israelita Ozia e Achior, re degli Ammoniti, pagano. Achior, tuttavia, soltanto dopo aver appreso dal racconto della inerme Giuditta, tornata indenne con la testa di Oloferne a Betulia, come e con quale  aiuto la vedova di Manasse ha potuto realizzare il disegno divino, dichiara la sua conversione alla fede del Dio di Israele con i versi dell’aria che anche Beethoven volle intonare:

«Te solo adoro,/ Mente infinita,/ Fonte di vita,/ Di verità;// In cui si muove, /Da cui dipende/ Quanto comprende/ L’eternità».

Il rinvio alla realtà delle condizioni storico-politiche di Carlo VI è in Betulia come rappresentato dall’incitamento rivolto al suo imperatore, dopo la perdita di Napoli proprio in quel 1734, a dover sostenere le prossime ben più dure prove del rigetto dell’ascesa al soglio imperiale di Maria Teresa d’Asburgo da parte della coalizione franco-prussiana e di alcuni grandi elettori tedeschi.

In questa ottica di una sempre più stretta connessione dell’oratorio con le incombenti crisi politiche dell’equilibrio europeo, fino all’inizio della Guerra di Successione austriaca nel 1740, anche le due ultime azioni sacre, Gioas re di Giuda (Vienna, 1735, con musiche del Reutter) e Isacco figura del Redentore (Vienna, 1740, con musiche di Luca Antonio Predieri), andranno ad assumere sempre più la forma di sacre composizioni che intendono proporre alla religiosità dell’imperatore la ricerca del giusto rapporto tra Fede e ragione.

Carlo VI non avrebbe fatto in tempo né a chiedere al suo Poeta Cesareo di comporre per lui nella Hofkapelle altri oratori, né all’apertura delle ostilità della Guerra di Successione austriaca, che nessuno dei contendenti al titolo imperiale volle intraprendere mentre egli era in vita.

Improvvisamente, però, Carlo VI moriva nell’ottobre 1740.

Mario Valente – 27 Marzo 2011

 

 

 

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