Il re pastore
Un apologo di Pietro Metastasio sul
giusto governo
anche con l’intonazione di Niccolò Piccinni?
(34° Festival della Valle d’Itria, Martina Franca 17 e 19 luglio 2008)
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Il 17 luglio 2008 (con replica il 19 luglio) la 34° edizione del Festival della Valle d’Itria a Martina Franca, nella consueta suggestiva cornice del Palazzo Ducale, ha messo in scena in prima assoluta ai nostri giorni Il re pastore, dramma di Pietro Metastasio (Vienna, Schoenbrunn, 1751), nell’intonazione di Niccolò Piccinni (Napoli, Teatro di San Carlo, 1765), sotto la direzione orchestrale di G.B. Rigon e la regia teatrale di Alessio Pizzech. La committenza di Maria Teresa al suo Poeta Cesareo di un dramma che soltanto in superficie può essere assimilato e definito di impronta arcadico-boschereccia – (i rinvii di tutti gli autori dei saggi nel libretto di sala all’Aminta di Torquato Tasso più che un omaggio di musicisti e musicologi alla letteratura italiana è sembrata una scorciatoia interpretativa e una sorta di reductio ad unum della complessità dei linguaggi artistico-espressivi coinvolti nella composizione metastasiana, con buona pace, poi, delle ragioni storico-politiche dell’esecuzione del dramma, qui nel libretto e nella rappresentazione martinese totalmente ignorate) – è invece strettamente legata al rovesciamento delle alleanze in Europa voluto dagli Asburgo, a partire dagli anni Cinquanta del Settecento, dopo la vittoriosa conclusione della Guerra di Successione austriaca, in direzione di una vera e propria riconciliazione con i Borbone, al fine di creare un antemurale alla pervasiva arrembante ascesa della potenza prussiana nell’Europa continentale. Pietro Metastasio, con l’aiuto e la regia di Carlo Broschi (a Madrid dominus di ogni impresa teatrale e musicale della corte borbonica spagnola), si è già incaricato dal 1747 di esportare – con rilevante successo – il modello drammatico imperiale-viennese di cui egli è indiscusso protagonista da oltre venti anni. Così egli contribuisce non solo e non tanto a riformare anche in terra di Spagna la forma artistica dell’opera seria, ma soprattutto introduce il senso e i significati etico-politici del governo degli Asburgo, da lui stesso rappresentati nella sua poesia per il teatro musicale e di corte. Maria Teresa, come ingelosita della sua stessa liberale concessione al Poeta Cesareo di comporre per altri re – evento unico ed irripetuto nella storia dei letterati al servizio delle corti nel XVIII secolo – chiede a Metastasio per il suo onomastico e subito dopo avere dato alla luce la figlia Maria Giuseppina di scrivere, perché sia eseguito nel teatro dell’imperial residenza di Schoenbrunn, un dramma in grado di rappresentare la magnanimità dei sovrani che pur dominando su vastissimi territori, ormai vittoriosi di ogni nemico, sappiano riconoscere e premiare da pari loro tutti i sudditi nei quali albergano le stesse virtù e gli stessi valori universali che debbono ispirare e guidare l’agire dei re. In questa direzione la lettura arcadico-sentimentale del Re pastore di Metastasio-Piccinni, unitamente all’esigenza di esaltare le virtù della dinastia asburgica – chiave con la quale Bernardo Ticci, curatore della presente edizione critica, nel libretto di sala ha modo anche di stabilire il “declinare” (sic!) della vena creativa del Poeta Cesareo – è del tutto inadeguata a capire e offrire agli esecutori della rappresentazione martinese la leva etico-politica del bene comune e della pubblica felicità – criteri del giusto governo con i quali Metastasio al tempo stesso rappresenta e ammaestra pedagogicamente la politik asburgica – leva utile e assolutamente necessaria per realizzare unità e coesione interpretativa tra tutti i protagonisti della prima rappresentazione ai nostri giorni de Il re pastore messo in musica dalla gloria barese del tempo, Niccolò Piccinni. Lo stesso Lorenzo Mattei, nel presentare nel libretto di sala l’intonazione di Piccinni, ripropone alquanto pedissequamente la sommaria e consueta definizione de Il re pastore quale ‘dramma pastorale’, aggiundendovi di suo, erroneamente, che questo fu «cantato nei giardini imperiali», come a dire e ad informare il colto e l’inclita che un ‘dramma pastorale’ non poteva che essere rappresentato nell’ambiente ‘boschereccio’ consono e adeguato ai caratteri e temi proposti dal poeta.
Per sfortuna del Mattei, il quale peraltro assegna anche al successivo Eroe cinese il medesimo ruolo arcadico-pastorale de Il re pastore – (e questa volta proprio non si comprende dove e come il giovane musicologo abbia trovato conforto alla sua definizione) – il cosiddetto ‘dramma pastorale’ venne rappresentato invece che nei giardini di Schoenbrunn nel teatro di corte della residenza imperiale appositamente fatta costruire da Carlo VI per la figlia Maria Teresa, come del resto è testimoniato dalle essenziali note logistiche a Il re pastore nell’edizione Hérissant delle opere del Poeta Cesareo – (rivista dallo stesso Metastasio) – note introduttive al dramma riproposte tali e quali nell’edizione critica curata dal Brunelli per Mondadori. Sarebbe stato sufficiente consultare una delle due edizioni per rendersi forse conto che più che una favola e/o serenata pastoral-arcadico-boschereccia Il re pastore – (nonostante e con buona pace dell’evocata intonazione di W.A. Mozart) – nell’ambientazione esecutiva nel teatro di corte a Schoenbrunn doveva rispettare al tempo stesso la festiva celebrazione dell’onomastico di Maria Teresa, la nascita di Maria Giuseppina, sua figlia, e la tematica dell’impronta etico-politica del governo degli Asburgo, sviluppata dal Poeta Cesareo in chiave ora non più contrappositiva tra il dovere e la felicità personale dei regnanti, come nei drammi precedenti fino all’Attilio Regolo, ma tale da conciliare entrambe nella vita della dinastia, in considerazione – potremmo dire – dell’esito favorevole per questa della Guerra di Successione austriaca con la riconferma alla guida dell’Impero dei discendenti di Carlo VI.
Da queste brevi considerazioni si può capire come il luogo per la rappresentazione de Il re pastore, in consonanza con le importanti occasioni celebrative, non potesse che essere il teatro di corte di Schoenbrunn, così come infatti avvenne. Del resto, il contesto storico-politico europeo spingeva Maria Teresa non solo a non riposare sugli allori delle recenti vittorie belliche ma anzi a preparare il terreno per coltivare più avanzate strategie onde contenere rivali politici molto più agguerriti sia nell’Europa centrale che oltre Manica, sugli Oceani. Il significato essoterico del dramma – rivolto cioè all’esterno ed in questo caso ai Borbone – intendeva comunicare il rassicurante equilibrio raggiunto dagli imperatori d’Asburgo come sovrani dediti al bene e alla felicità dei popoli da loro amministrati e, al tempo stesso, intenzionati a rafforzare la dinastia feudale mediante accorte unioni matrimoniali con le famiglie regnanti dell’ancien régime.
Nella realtà storica – è cosa risaputa – Maria Teresa disegnò e realizzò la sua nuova politica estera offrendo ai Borbone regnanti in Europa le proprie figlie in matrimonio. Sarà così per Maria Antonietta promessa sposa al Delfino di Francia, il futuro re Luigi XVI nel 1767, matrimonio avvenuto a Parigi nel 1770, mentre l’altra figlia Maria Carolina andrà sposa per procura a Ferdinando IV di Napoli al quale si unirà arrivando nel regno dei Borbone nel 1768, a seguito, però, dell’immatura morte per vaiolo di Maria Giuseppina, la sorella prima di lei promessa in sposa al Borbone di Napoli fin dal 1765. Proprio nel 1765 Niccolò Piccinni venne incaricato dalla corte di Ferdinando IV di mettere in musica Il re pastore, il dramma con cui Metastasio aveva celebrato, con le musiche di Giuseppe Bonno, la nascita il 19 marzo 1751 di Maria Giuseppina; nella primavera dello stesso anno a Schoenbrunn l’opera veniva rappresentata. Il 30 maggio del 1765, quindi, il Teatro di San Carlo a Napoli metteva in scena il dramma che aveva salutato con felicità e plauso universali l’ingresso nel mondo di una tra le numerose figlie di Maria Teresa, quella Maria Giuseppina che i conflitti tra gli ancien régime d’Europa e in particolare la Guerra dei Sette Anni – conclusasi nel 1763 con la pace firmata a Hubertsburg – chiamavano ora a rinsaldare le relazioni diplomatiche tra l’Impero e i Borbone di Napoli, sposando appunto Ferdinando IV. Avviate dal Kaunitz e dal Tanucci nel 1765 le trattative per il contratto di matrimonio, previsto a Napoli nell’autunno del 1767, al raggiungimento dell’età di sedici anni da parte di Maria Giuseppina, il figlio di Carlo III di Spagna non avrebbe potuto offrire un omaggio simbolico e politico per la sua futura sposa migliore e più appropriato di questo. Del resto, il dramma del cosiddetto “declinare” dell’opera di Metastasio, Il re pastore del 1751, aveva ricevuto tali e tanti riconoscimenti pubblici da parte di Maria Teresa, dalla corte e dal popolo viennese, non solo da far meritare al Poeta Cesareo sontuosi regali (cfr. Lettera ad Antonio Tolomeo Trivulzio, Vienna 9 Gennaio 1752, Pietro Metastasio, Tutte le Opere, a cura di B. Brunelli, Milano, Mondadori, 1943-1954, Voll. 5, III, p. 707), ma da consentirgli una ragguardevole serie di repliche del dramma nei palazzi della nobiltà nella capitale imperiale, e l’impegno della stessa Maria Teresa a farlo eseguire nelle maggiori città dell’Impero (sarebbe troppo lungo il rinvio alle numerose lettere di Metastasio a testimonianza della straordinaria fortuna di quest’opera della “senilità”, e perciò occorrerà trovare un’altra occasione per le doverose citazioni, fermo restando che chiunque potrà leggere nell’epistolario del Poeta Cesareo curato dal Brunelli, la narrazione dell’intera vicenda legata al tempo della prima rappresentazione viennese de Il re pastore). Purtroppo l’annullamento delle nozze tra l’arciduchessa Maria Giuseppina e Ferdinando IV a seguito della morte per vaiolo della bella ed appena sedicenne figlia di Maria Teresa non dovette certamente favorire le repliche del dramma intonato da Niccolò Piccinni nei territori dei Borbone, se è vero – come è vero – che non si hanno notizie né a Napoli né in Francia né in Spagna dopo il 1765 di altre rappresentazioni de Il re pastore del maestro barese, mentre, d’altro canto, la festa teatrale Partenope, appositamente composta da Pietro Metastasio, messa in musica da J.A. Hasse, per queste nozze, fece in tempo ad andare sulle scene di Vienna, Napoli e Palermo nel 1767, poche settimane prima della funesta notizia della scomparsa della sfortunata arciduchessa. Il ruolo festivo, celebrativo del grande evento politico delle nozze Asburgo-Borbone, assegnato ancora una volta all’invenzione poetico-simbolica di Pietro Metastasio, dopo l’incipit altrettanto rilevante per importanza artistico-musicale de Il re pastore del Piccinni, sono entrambi testimonianza più che probante dell’impegno delle due corti europee nel rinsaldare adeguatamente i nuovi legami. Ecco perché il quadro generale delle condizioni politiche del tempo, ovvero l’ante-testo storico (giustamente a cuore di Giuseppe Sinopoli), avrebbe dovuto essere ben presente con il dovuto rilievo nel decidere il taglio della rappresentazione: laddove, la prima esecuzione ai giorni nostri de Il re pastore di Piccinni invece che far emergere il forte leit-motiv metastasiano del saper rinunciare alla propria privata felicità da parte del regnante in favore della pubblica felicità, per la quale i caratteri di “innocenza” pastorale come immediatezza del sentire morale nelle scelte sono presupposti fondamentali universali e costitutivi del genere umano e quindi del buon governo, ha preferito rappresentare questi stessi caratteri quali lacrimose espressioni di una primitiva spontaneità di affetti, conculcata dalle dure necessità e coercitive della realpolitik, ovvero della ragion di stato. In conclusione, si potrebbe dire che invece che interpretare ai nostri giorni Il re pastore di Pietro Metastasio in cui finalmente il poeta – giuste le attese politico-diplomatiche tra le due corti – faceva coincidere la pubblica felicità, garantita dal sacrificio e dalla dedizione dei re, con il conseguimento e l’appagamento degli affetti personali degli stessi sovrani, questa sia stata piuttosto la rappresentazione, a lieto fine, di un dramma del Manzoni, nel quale l’amour passion prevarrebbe, con un singolare rovesciamento della testualità manzoniana, sulla raison d’état. Il dramma di Metastasio e la musica composta da Piccinni sopra i suoi versi, invece, confermano proprio nel finale tutto il senso e l’assetto strutturale dell’intera opera: «Dalla selva e dall’ovile/ Porti al soglio Aminta il piè;/ Ma per noi non cangi stile:/ Sia pastore il nostro re» (sottolineature e grassetto nostri). Se queste erano le componenti costitutive del dramma metastasiano, la regia, privilegiando l’impostazione pastorale-arcadico-boschereccia – (peraltro desunta dall’Aminta del Tasso mai citata tra le sue fonti da Pietro Metastasio, il quale peraltro dichiara di essersi ispirato soltanto a Curzio Rufo e a Giustino, e non già anche allo storico Diodoro di Sicilia, come riportato erroneamente nel libretto di sala martinese) – impostazione che oltretutto ha richiesto ai cantanti una notevole agilità atletica piuttosto che vocale, obbligandoli a salire e scendere su e giù dalle gigantesche e costose boschive scenografie allestite, ha del tutto ignorato e mancato il senso della comunicazione artistico-poetica dei testi di Metastasio e di Piccinni. La stessa magnifica musica del compositore di Bari, soprattutto godibile nei fraseggi degli archi durante il I Atto, si è andata progressivamente appiattendo e svuotando di energia in questa esecuzione e interpretazione fondate sugli stilemi della favola pastorale e boschereccia che, nel II e III atto, con la snervante lentezza dei recitativi, hanno reso insopportabile gli stessi tempi dell’azione scenica. Parrebbe quasi che tale risultato sia stato la deriva di una sorta di giustapposizione interpretativa tra i diversi protagonisti della rappresentazione: tra il direttore dell’orchestra e il regista, tra il curatore dell’edizione critica e i musicologi che hanno composto i saggi di presentazione dell’opera, ognuno dei quali sembra si sia ben guardato dal mettere a parte i colleghi riguardo alle rispettive valutazioni critiche dei testi settecenteschi, se non esponendole i musicologi nel libretto di sala, il maestro direttore-concertatore nel guidare l’esecuzione orchestrale, il regista nel fare muovere i cantanti nell’ambiente idillico-pastorale, artatamente e improvvidamente teso ad esaltare una lettura del dramma unicamente sentimental-primitivistica. Ma di tale impostazione culturale, riduttiva e distorcente, come se la storiografia critica sull’opera di Pietro Metastasio fosse ancora all’anno zero e non fosse quindi di alcuno aiuto in questa occasione, si è già detto.
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